mercoledì 27 febbraio 2008

Salvo Monica

domenica 24 febbraio 2008

Salvo Monica


Salvo Monica,
nato ad Ispica (RG) il 4 Settembre 1917
ma residente da oltre 60 anni a Siracusa, in Viale S. Panagia,
è morto Giovedì 7 Febbraio 2008, alle ore 15,
all’età di 90 anni compiuti

Tra Terra e Celu



Corrado Di Pietro dice di poetare per accidens in siciliano, tacitamente convinto della crociana indifferenza verso l’uno o l’altro strumento linguistico, l’italiano o il milanese, il romanesco o il napoletano, oppure, perché no?, l’inglese o il tedesco. Chiarisce che il suo siciliano è "moderno”, quello parlato da lui e dai giovani di oggi, rifuggente dagli arcaismi, nient’affatto nostalgico; e che egli non intende far “poesia popolare o popolareggiante”, ancora meno “sboccata, taverniera, bozzettistica, arcadica”. Confida di essere innamoratissimo dell’oggi, di cui si compiace di essere figlio, pur professandosi della scuola dello zio Salvatore Di Pietro, uno dei maggiori poeti di Sicilia da Giovanni Meli in poi, e di muoversi tra le classiche cadenze ritmiche di Quasimodo e la calda musicalità evocativa di Garcia Lorca. Insomma, Corrado Di Pietro è un poeta “colto”. C’è in lui l’intellettuale che concettualizza, da “geometra” che lavora presso l’Ufficio Tecnico Erariale di Siracusa, felicemente sposato, padre di due figli, Daniele e Giampaolo. Di tutto ciò il poeta in lui tiene conto fino a un certo punto. Per il resto, invece va per la propria strada, giocandosi l’intellettuale concettualizzante fino a costituirne un segno di contraddizione.
Parafrasando Engels, potremmo dire che la poesia qui si attua per lo più “a dispetto delle idee dell’autore”, sfuggendo alle “intenzioni” e alle definizioni, e attingendo a una realtà diversa da quella programmata e a una verità più intima. Così Di Pietro può confessare che «La megghiu puisia... è comu ‘n amuri / c’addevi nta la menti, / ‘n amuri ca si fa spusa / nta li notti senza sonnu e senza uri». Qui scherzando si può dire che la signora Di Pietro abbia ragione di essere gelosa e di compatire nel marito il poeta che ha quella seconda sposa nelle notti senza sonno e senza ore della «puisia... ca nun si scrivi». Ma quando quella «puisia... chiusa nta lu cori» si apre e sboccia nei versi del mondo, come di fatto accade (altrimenti non sapremmo neppure della sua esistenza), non viene alla luce accidentalmente o indifferentemente in siciliano o in altro idioma. Il verbum cordis o mentis si è fatto carne e verso (verso-solco, giusta l’etimologia) a Pachino, in un luogo e in un tempo che è parte di un destino interiore, anche se non rientra nella geometria e nella cronologia comune.
Ora se ci lasciamo guidare dalla preoccupazione concettuale e definitoria dell’autore, siamo costretti a sostare più del necessario su composizioni come La petra, Manichini, Lu compiutiri, Quartieri “Basalata” e via procedendo dietro il carro della morte che fungerebbe da “chiave di lettura”. Se però seguiamo il poeta, avvertiamo subito un’apertura alla vita e alla bellezza che ci persuadono di essere senz’altro sulla strada giusta. Col poeta si parte dai Pampini, tra un «tem- pu dispittusu» e «lu jocu di li carusi», ed eccoci alla prima stazione dolorosa del «nespulu» che muore e «pari Cristu», un Cristo-albero, natura, cosmo; e si ha già la nudità dell’anima del poeta, nudo-fanciullo che richiama la Ninna-nanna. A questo punto ci si può concedere il sonno della giustizia poetica, per quanto turbata dagli incubi di «La Morti / vistuta di Cannaluvari», di Canni al vento, di Ecce Homu, Pirdunu, Lamentu, fino a ridestarsi coll’Alba davanti al prodigio di una vela che «diventa ala di farfalla, / tra lu mari e lu celu» mentre poi «svampa la braci di lu suli» che «spogghia la terra e brucia / ssa vistina niura di la notti». L’uomo ora si può prendere «na carizza d’amuri»,anche se continua a dormire, tanto «lu jaddu» si accontenta di dare «lu bongiornu sulu a li jaddini». Dopo di che, il poeta sale alla vetta che è «Matri», dove la «puisia», anche quella che gli stava chiusa nelle più intime profondità del cuore, sgorga limpida alla luce «di li jorna», del sole e della luna, del gioco e del pianto; e lui può finalmente, benedetto coll’«impronta d’amuri» della madre, avviarsi per il mondo, come il seminatore evangelico, conscio delle « trappuli di morti», del vento e della terra aspra cui sparpaglia la semenza del proprio canto, con la fiducia che almeno una spiga germoglierà, quella d’amore della madre. Con questo commiato, al quale forse lo stesso Quasimodo avrebbe invidiato qualcosa, il poeta ci lascia liberi di giudicare.

Fortunato Pasqualino

Incertezza di luce



Difficilmente in un libro di poesie si trova un po’ di spazio per ringraziare quanti, in una certa misura, hanno collaborato affinché l’opera fosse realizzata.
Io voglio fare, qui, un’eccezione; per cui sento il dovere di esprimere la mia gratitudine al prof. Angelo Fortuna che ha voluto troppo lusingarmi con la sua dettagliata e acuta presentazione.
Un altro « grazie », con quella sincerità che contraddistingue la nostra amicizia, lo devo al pittore Tano Fortuna che con mirabile sensibilità ha riportato in segni grafici, con stile essenziale e taglio moderno, quelle sensazioni che muovono da alcune mie poesie.
E, assieme ad essi, la mia gratitudine va estesa ai miei amici pittori del Club d’Arte «GRUPPO 6» di Pachino: Brancato, Dugo, Mallia, Di Frenna, Iurato e al poeta Salvatore Cagliola animatore del gruppo nonché mio compagno nella strada della poesia. Con loro ho iniziato da alcuni anni un discorso culturale serio ed impegnativo che, in un certo senso, ha interrotto il letargo artistico in cui versava il mio paese.
In questo discorso, col mio libro, voglio inserire il mio contributo di uomo e di poeta.

Corrado Di Pietro

Canto d'Alfeo



Quest'opera nasce da una vecchia discussione con Vittorio Lucca. E gli, cultore di storia e tradizioni siracusane, non appariva molto soddisfatto né della lezione mitologica ovidiana su Aretusa, né del linguaggio, che riteneva ormai lontano dal gusto moderno. Chiacchierando mi invitò a una ripresentazione del mito, in qualche modo più vicina al nostro modo di sentire.
Per alcuni anni non pensai più alla sua richiesta; capivo che l'impresa di toccare un mito così consolidato era ardua e impopolare e forse non interessava nessuno; avevo fatto, invero, qualche tentativo malriuscito, in versi italiani, e quindi avevo lasciato cadere la cosa.
Un giorno però ricevetti da un mio amico poeta un libretto in siciliano: si trattava di un lungo racconto poetico su un personaggio tipico. Lessi il primo verso e fu come un'illuminazione: era nato il Canto d'Alfeo.
Tutto il resto avvenne tra me e il computer. Fu una stesura forsennata, conclusa in poche notti, guidata dallo schermo che mi suggerì la forma dell'ottava e del verso singolo di aggancio fra due strofe. Era ed è lontanissima da me quella forma, che rimane ancorata alla poesia popolare, mentre mi è più congeniale il verso libero e polimetrico; ma a volte i poeti sono strumenti nelle mani della Musa!
L'unica libertà formale che mi son presa è quella di non legarmi alla rima e di essermi lasciato andare invece a un gioco di assonanze, consonanze e solo qualche volta anche di rime, così come mi conducevano il suono e il ritmo, evitando fin quando mi è stato possibile i suoni striduli e duri.
E poi il siciliano! Lingua dal fascino incommensurabile e dalle infinite possibilità espressive. La lingua stessa proiettava tutta la vicenda in un tempo senza tempo, all'inizio della storia umana, nel tempo dei miti e degli eroi fondatori di città. E' la lingua dei miei padri e dei miei nonni, le parole di questa terra generatrice di miti e di storia, i suoi gravi e armoniosi accenti
Ma era destino che nulla dovesse rimanere del vecchio mito classico.
In quello Aretusa è una ninfa che va al seguito di Diana, dea della caccia; durante una battuta la ninfa cerca un po' di refrigerio in un bagno nelle acque del fiume Alfeo. Questi s'innamora della bella Aretusa e cerca di possederla. La ninfa chiede aiuto a Diana che la trasforma in fonte in un luogo della Sicilia dove poi sorgerà la città di Siracusa; ma Alfeo non desiste e, riprese le sembianze di fiume, valica mare e terre fino a congiungersi con l'amata.
In quest'operetta invece Aretusa è essa stessa una divinità della terra e della natura, simbolo non più della caccia e della violenza ma della vita e del creato. Alfeo è il cacciatore, ovvero colui che procura la morte e rompe ogni equilibrio prestabilito (vedi l'episodio della cerva).
Quindi Aretusa è un simbolo d'amore e di creazione mentre Alfeo è un simbolo di violenza e di morte. Si sono invertite le parti rispetto al vecchio mito classico.
Ma l'amore vince tutto e trasforma anche la frigidità iniziale della ninfa. Nel congiungimento di entrambi ci sono la vita e la storia dell'uomo, che a me piace ricondurre in quest'angolo del mondo, a Siracusa, dove sono nati gran parte dei miti di fecondità, di fertilità, d'amore e di vita, ai quali per tanto tempo abbiamo legato la nostra cultura.
Corrado Di Pietro

sabato 23 febbraio 2008

Corrado Di Pietro

E’ nato a Pachino nel 1946.
Poeta, saggista, conferenziere, Di Pietro si è sempre occupato di promozione culturale organizzando incontri, recital di poesie, conferenze e convegni sulle problematiche letterarie, mostre d'arte figurativa, mostre etnologiche, rassegne di vario genere ecc.

Collaborazioni a giornali
Da oltre trent’anni collabora con settimanali e riviste locali e nazionali con articoli di socialità, letteratura, arte e folklore. Attualmente scrive su:
§ La nuova Tribuna Letteraria, trimestrale di Lettere e Arti di Padova;
§ I Siracusani, bimestrale di storia, arte e cultura di Siracusa.
§ L’Illustrazione Siracusana, bimestrale di storia, arte e cultura di Siracusa.
§ Èthnos, semestrale di Etnologia, da lui curato per il Centro Studi di Tradizioni Popolari “T. Bella” – Siracusa.

E' stato ospite di numerosi programmi culturali di radio e T.V. locali. E’ presidente del Premio Letterario “I Siracusani”, nonché membro di numerose giurie di concorsi letterari, fra cui il Premio “Vann’Antò” di Messina-Ragusa e il “Turiddu Bella” di Siracusa. E’ stato direttore artistico delle prime due edizioni della Rassegna del Teatro delle Marionette di Sortino.