mercoledì 19 marzo 2008

ARTE E LETTERATURA

VITTORIO LUCCA

L’ANIMA DEL COLORE

(Questo saggio di Corrado Di Pietro è la presentazione del catalogo - Edizioni Galleria Roma - della mostra di Vittorio Lucca, tenutasi nei locali dell'ex Convento del Ritiro, via Mirabella, in Siracusa nel 2006.)



Il colore come mezzo ed espressione
In principio fu il colore, e il colore era nella luce; anzi il colore era la luce e tutto il creato era colore.
Parafrasando l’inizio del vangelo di Giovanni ci viene più agevole accostarci alla pittura di Vittorio Lucca; ci è più accessibile l’ingresso al mondo cromatico e culturale di questo pittore siciliano che nel colore ha trovato ogni possibile realizzazione formale della natura e dell’opera che l’uomo svolge su di essa.
Tutto è colore per Lucca e la luce stessa, madre e creatrice del colore, non fa altro che togliere i veli che in sua assenza offuscano e coprono le tinte. Provatevi a guardare una campagna o il mare o il cielo: poi chiudete gli occhi e vi resterà l’impressione di masse colorate che ondeggiano nella vostra mente oppure di materia impastata con diversi pigmenti cromatici a sostanziare caseggiati rurali, travi in legno, alberi, cespugli, fiori. La vita stessa è nel colore e con la vita anche il lavoro e la fantasia degli uomini.
Tutta l’esperienza pittorica di Vittorio Lucca, i suoi cinquantanni e più di avventura coloristica, sono da collocarsi nella dimensione del colore; non è un fatto scontato perché non tutti coloro che dipingono conoscono la materia prima del loro operare, così come non tutti coloro che scrivono versi sono poeti.
Lucca sa come si muove il colore sulla tela, sul legno, sul vetro o sul rame: lo ha analizzato, scomposto, seguito nei suoi fantastici itinerari molecolari, lo ha impastato e confuso, ne ha capito l’intensità, la forza, la vibrazione, il tono, ne ha subito il fascino e la magia fino a scoprire nel colore la vita stessa di ogni creatura.
Per questo nelle sue tele tutto ha vita e pare che un’anima sia dentro i paesaggi, uno spirito della vita che aleggi e s’innervi in tutte le cose.
La storia della pittura di Lucca è la storia della scoperta continua del colore; i suoi forsennati periodi di attività e le sue lunghe inspiegabili pause (anche di molti anni senza toccare mai il pennello) trovano una possibile spiegazione solo se li consideriamo come dei viaggi nei territori del colore: ci sono i momenti di frenetica avventura e i momenti di riposo. Gioca però su tutto un onirico bisogno di identificazione col colore, così come avveniva in Van Gogh e in molti impressionisti o così come poi ebbe a verificarsi nella drammatica pittura degli espressionisti: due facce della stessa medaglia. Lucca parte da questa ambivalenza, da questa inconscia aporia che, quasi illogicamente, guida il suo pensiero, il suo spirito e la sua mano.
Ed ecco passare dai sereni paesaggi dal cromatismo tenue e delicato (i colori degli anni cinquanta sono il giallo velato, il marrone delle ocre e delle terre di Siena, i verdi opachi, gli umbratili grigi, i tenui rossi, i celesti virginei) ai forti e vividi colori degli anni settanta e ottanta dentro una pennellata ampia e densa, fino agli sfavillanti luccichii cromatici degli anni novanta ottenuti con pennellate brevi e accostate come un ricamo. L’aporia sta proprio nelle ambigue sorgenti ispiratrici che alimentano la tensione culturale di Lucca, prima ancora dell’atto pittorico e prima ancora della scelta coloristica; perché questa pittura nasce dentro l’artista, innanzitutto, come istanza culturale.



La lezione sociale e morale
Molti di questi quadri non sono altro che una denuncia della violenza che l’uomo esercita sulla natura (vedi la serie dei paesaggi in cui compaiono pipistrelli, topi, mostri di fantasia che girano dentro una giungla di rami scheletrici e di gigantesche foglie).
Lucca ci riporta la visione di un mondo primordiale ricco di sensazioni fanciullesche, di immaginazione e di magia e anche di incubi popolati da uccelli neri e da draghi contro i quali ognuno di noi ha combattuto le prime battaglie.
I suoi paesaggi evocano un’atmosfera medianica che aleggia in un mondo ancestrale dove il vegetale e l’animale fanno da scenario alla perenne lotta fra la vita e la morte. La vita è rappresentata dalla pulizia e dalla forza del colore; la morte è configurata col segno contorto di rami e radici di scheletrici alberi intersecantisi in una giungla dove unici abitatori sono il gufo e il pipistrello: uccelli della notte, simboli del male e della distruzione, padroni di una natura nella quale mai appare l’uomo ma dove evidente si mostra la sua opera malefica.
Quali i contenuti culturali di questi “Paesaggi inquinati?”. È appariscente il motivo ecologico ma il substrato esistenziale di questo messaggio è da individuarsi nel drammatico confronto tra il Bene e il Male; nella acquiescenza della morte come elemento didattico di catarsi, insegnamento e strada per arrivare alla silenziosità e alla luce serena di altri paesaggi ripresi nel piccolo formato. Ed è proprio nelle tele più piccole, quasi a significare la preziosità della Luce, che la pittura di Lucca diventa solare e riposante, a tratti leziosa, volutamente; i colori abbandonano la loro rabbia, il cromatismo diventa tenue ed elegiaco, intessuto di grigi-cenere e di gialli sfumati; il verde e il marrone, filtrati nella luce crepuscolare, ci trasportano in un lirismo agreste che qualche volta ci capita di percepire nelle zone interne della nostra isola, laddove i fumi delle ciminiere non sono ancora arrivati.
Religiosità della natura contrapposta all’alchimia del progresso tecnologico; rito panico e sacrificio dell’habitat: queste le parallele entro le quali corre il messaggio del pittore siracusano.
Il quadro “La cicuta”, dai colori accesi e dalle forme esasperate e contorte, intona un’elegia di morte; in “Non uccidete le allodole” il contrasto fra il giallo luminoso dei fiori e il sangue che fuoriesce dal corpo esanime dei piccoli uccelli racchiude tutta la tragedia del nostro tempo; un tempo in cui abbiamo deriso la poesia del creato e da coabitatori del mondo siamo diventati tiranni crudeli e senza scrupoli.
Ma Lucca canta pure la gioia con impeto di fanciullo. La canta in tutta la serie dei quadri dedicati ai fiori, soprattutto in quello bellissimo delle “Strelitzie” dove eleganza, forma e colore si sposano felicemente riuscendo a creare un’immagine di questi “Uccelli del Paradiso” che si libra oltre la cornice, là, nella dimensione fantastica che pure ci accompagna.
Impeto e magia: modi di essere e di rappresentare la realtà propri di un ragazzo o di un poeta. Paesaggi disneyani che non sappiamo come definire ma che ritroviamo sempre nella nostra memoria, non appena abbassiamo le palpebre. Se esiste la fiaba o l’incubo o solo il sogno nelle sue molteplici sfumature, se la realtà non si limita solo a quello che noi percepiamo, allora Vittorio Lucca ha ragione.
Ha ragione di dipingere paesaggi idilliaci o infernali, secondo le varie visioni del reale; e ha ragione anche quando, in un impeto di denuncia, dipinge corvi e pipistrelli e, in contrasto, squarci di natura permeati di una luce appena percettibile. Noi siamo i corvi e i pipistrelli e fin quando i nostri occhi staranno chiusi nessuna luce potremo percepire, anche se la caparbietà di un artista puro e quasi ingenuo come Lucca ce la mostra aprendo le sue innumerevoli finestre.


La Sicilia
Se poi a tutto questo aggiungiamo l’ambientazione di questi paesaggi, cioè la Sicilia con la sua forte solarità, i suoi accesi colori, la violenza e l’abbaglio dei rossi, dei verdi, dei gialli, dei blu - i fondamentali quattro colori del paesaggio siciliano - ; se aggiungiamo ancora il raffinatissimo gusto estetico che consente a Lucca di ritagliare l’angolazione ‘naturisticamante’ più interessante e ritrarre la materia come fosse la pelle della terra, gravida di toni, di sfumature, di variazioni, appare allora più chiara la dimensione culturale e artistica del pittore siracusano.
E appaiono chiare ed evidenti le varie fasi che ha attraversato l’artista; i rimandi e i richiami delle varie scuole che hanno dominato il novecento europeo: dall’espressionismo all’informale, attraverso il fauvismo e il cubismo, fino a raggiungere una visione del tutto personale dell’arte e della pittura. E’ la visione di una coloristica totalizzante, onnicomprensiva, dove non c’è posto per la figura umana e forse non ci sarà più posto neanche per quell’esigenza culturale che avevamo sopra accennato: tutto il creato pare che si abbandoni all’anima del colore stesso che torna alla sua funzione generatrice di ogni possibile universo.
L’universo di Lucca ha connotati territorialmente definiti. Si parlava della Sicilia, ma forse sarebbe meglio parlare del paesaggio siracusano: terra di forti contrasti tonali per via di una luminosità estrema. Qui si può parlare di una perenne “gloria del disteso mezzogiorno” per utilizzare una bella immagine montaliana; si può vedere il ricco gioco cromatico che la luce del sole intreccia di foglia in foglia, di ramo in ramo, di pietra in pietra, di collina in collina, fra terra e cielo.
Paesaggi campagnoli e marini, luoghi e contrade sparse in tutta la provincia, strade e paesi, casolari e grotte, spiagge e promontori siracusani: mai nessuno ha “visto” la nostra terra con così copiosa ricchezza di emozioni, di angolazioni, di trasformazioni e di sublimazioni. È un racconto per immagini, per trasognate suggestioni! Lucca dipinge all’aperto, come gli impressionisti, ma poi elabora totalmente le sue tele, le introduce nella dimensione di un suo personale sogno e, rivisitate oniricamente, le esprime compiutamente. Per questo la pittura di Lucca ha bisogno di essere vista e meditata, rivista ancora e assimilata.




Lucca e l’Opera dei Pupi
A cavallo del millennio, fra il 1999 e il 2004 sono state realizzate a Sortino, un grazioso centro nell’interno collinare ibleo, le Rassegne del Teatro dei Pupi Siciliani e Vittorio Lucca ha realizzato quattro quadri dai quali sono stati tratti i manifesti, attualmente patrimonio del Comune di Sortino. Un quinto quadro sulla stessa tematica è di proprietà dell’autore. In questo catalogo abbiamo voluto riportare le cinque tele poiché, a nostro giudizio, rappresentano uno degli esiti più importanti dell’artista siracusano.
Si tratta di opere di un certo impegno estetico e contenutistico, sia per un esplosivo cromatismo che ravviva il disegno e lo avvicina in qualche modo ai tradizionali cartelloni dell’opera dei pupi, sia per il simbolismo al quale si rifanno le figure e la concezione stessa di questi quadri.
Il gesto è l’essenza del teatro, il suo peculiare segno e la sua più articolata rappresentazione. Il gesto crea e accompagna il pensiero, spesso anche la parola: si fa iperbole e spirale di un ragionamento o linea retta o circonferenza di un’idea, di un fatto, di una storia; il gesto accarezza e uccide e nel suo farsi e disfarsi sul tavolaccio di un palcoscenico crea simboli e metafore, rievoca memorie o costruisce sogni.
Ma soprattutto il gesto è l’essenza del teatro dei pupi, di quel teatro che, nato in Sicilia nella prima metà dell’ottocento, continua ancora oggi a rappresentare il gesto perenne ed eroico dei Paladini di Francia, dei Santi Cristiani, degli Eroi e dei Briganti che hanno acceso la fantasia popolare. Questo gesto teatrale e magico, simbolico e didascalico, sta alla base delle tele “pupare” del Maestro.
Il cavaliere che uccide il drago nel primo manifesto “Amore e Odio nei Pupi Siciliani” simboleggia la lotta tra il Bene e il Male, quella continua didattica fra Amore e Odio sulle quali si dipanano le vicende narrate dai pupari siciliani; in questa lotta vive ogni cosa: l’albero a cui si attorciglia il drago-serpente si antropomorfizza, le grotte di Pantalica che fanno da fondale si animano in un tremore pallido, la natura esplode in forme contorte e accesi colori, l’orizzonte si allontana su toni e piani diversi come quinte orizzontali che separano lo spazio. Il gesto qui si fa lotta e avventura.
Nel secondo manifesto, “Il Teatro è Vita”, i toni si appiattiscono, le tinte si fanno uniformi e larghe, lo scenario si apre su un gruppo di maschere tipiche del repertorio popolare italiano. Si vuole evidenziare il connubio fra teatro e vita: il primo trova compimento nel gesto dimesso delle maschere a riposo, la seconda trova significazione invece in quell’ape d’oro che spinta da una spirale si allontana dal palcoscenico. L’ape è il simbolo della laboriosità e della genialità umana; ma è anche il simbolo di Sortino, generatrice del famoso miele degli Iblei; dunque quale migliore simbolo di potenza e di fecondità poteva rappresentare la vita che si dipana nel teatro del mondo?
Ma il gesto si fa liberatorio e incisivamente teatrale nel terzo quadro, “Santi ed Eroi”. Qui il gesto dei Santi che esultano come in un coro greco dinanzi ai paladini in armi, quasi a suggellare con la loro gioia la nobile “gioia” degli antichi cavalieri medievali, si veste di una sottile ironia, di quel sapore popolaresco che intride di felice ingenuità le pitture che accompagnano l’Opera dei Pupi. I colori sono solari e distribuiti a pennellate larghe per scandire la prospettiva; le forme hanno qualcosa di scultoreo come in quel cavallo in primo piano che simboleggia tutta l’epopea cavalleresca. E il gesto ancora una volta racconta le battaglie e le avventure dei vecchi paladini.
Il quarto quadro di questa piccola antologia porta il titolo suggestivo di “Orlando a Roncisvalle”, cioè nell’ultima battaglia del grande cavaliere, nel luogo dove perse la vita. Quadro complesso nella struttura, che meriterebbe maggiore spazio di quello che qui disponiamo. Al centro, grande e imponente, su un cavallo bianco alzato su due zampe, sta Orlando dall’aurea armatura: suona il corno e una luce solare, d’oro e di fuoco, scende dall’alto sopra di lui. In basso, ben definiti nei colori e nelle forme cavalcano i suoi paladini; di lato a lui, dipinti in forme evanescenti, come masse fluttuanti, s’intravedono i cavalieri saraceni. È l’apoteosi di Orlando, il momento cruciale della battaglia. Si avverte la tensione epica e religiosa ad un tempo che denota l’approfondimento culturale operato dal pittore, soprattutto attraverso una rappresentazione simbologia molto articolata.
Il quinto quadro rappresenta “Pulicane”, cioè un gigante con la testa di cane che scaturisce dalla ricca galleria di mostri e di figure mitiche del mondo paladino dell’Opra. Pulicane, nella sua maestosa presenza e nell’atto di scagliare un grande masso verso Orlando che gli si para davanti con la spada sguainata, è il simbolo non proprio del Male ma dell’ignoto, dell’ostacolo che nega l’avventura, del mostruoso che annichilisce e impaurisce. Pulicane è la nostra angoscia, la paura della vita spesa per la generosa inchiesta del bene, è la massa deformata delle nostre inquietudini.
Come si vede c’è una lezione forte e precisa in queste opere pupare; un desiderio di coniugare la semplicità rappresentativa e primitiva dell’arte popolare con l’approfondimento tematico e stilistico dell’artista colto.



L’Annunciazione a Ortigia
Sulla scia del simbolismo che abbiamo analizzato per le opere “pupare”, Vittorio Lucca, pittore di paesaggi e di “cose”, ritorna di quando in quando sui temi religiosi. L’Annunciazione a Ortigia è del 2003 e giunge dopo il calvario che il Maestro ha dovuto sopportare per via di un brutto male che lo ha molto debilitato. Ma poco importa. Ciò che è importante è quello che viene fuori dall’esperienza dell’uomo e dell’artista e che si colloca nella sua personale storia.
Quest’Annunciazione che qui proponiamo è frutto di una originale lettura teologica dell’evento religioso: è prima di tutto esegesi e meditazione sull’incarnazione di Dio, sulla presenza del soprannaturale nella storia dell’uomo, sull’annuncio di una nascita straordinaria. Solo dopo, ma molto dopo, è un’opera di pittura. Vediamo allora di conoscere questi due aspetti che formano un unico fatto d’arte e di religiosità.
L’aspetto religioso si estrinseca attraverso una lettura popolare dell’Annuncio; l’ambiente è quello di un cortile di Ortigia: in primo piano, sulla sinistra di chi guarda, si alza una grande palma, sulla destra campeggia, come contrappeso formale ma in effetti come immensa presenza del divino, un angelo dalle grandi ali luminose e dal vestito grigio-azzurro; al centro del cortile, seduta su una sedia, con le gambe divaricate e il capo appoggiato su un braccio disteso sul poggiaschiena della sedia, dorme una fanciulla, minuta, nera di capelli e di veste, con le braccia scoperte quasi a farci capire che è estate e siamo nell’ora pomeridiana assolata e calda; sullo sfondo si intravedono sagome di edifici dagli intonaci scrostati, un lampione immenso, un cielo azzurro fra alberi e case. Tutto l’ambiente ha qualcosa di solitario, statico, come se la storia si fosse fermata qui, in questo luogo povero e disadorno, quasi squallido se non fosse per gli alti palmizi che sembrano colonne a sostegno del cielo.
Maria è una delle nostre ragazze, una di quelle donnette spaurite e dolenti che vediamo camminare spedite nei vicoli della Giudecca, o una di quelle giovanette gaie e felici che vediamo appendere i panni nei cortili della Mastrarua, o che si pettinano sorridenti negli slarghi della Spirduta. Maria abita qui di casa, nella concezione religiosa di Lucca, sempre; abita laddove c’è un popolo che vive e che ha bisogno di una speranza e di un aiuto dal cielo. Ecco quindi l’Angelo dalle grandi proporzioni, l’Angelo che sovrasta ogni altra cosa e che irrompe con la sua pesantezza nella storia di un paese e di una fanciulla in particolare. L’evento dell’Annuncio dell’incarnazione avviene sempre, ogni giorno e ogni qual volta siamo disposti ad accoglierlo. Ed ecco rappresentata simbolicamente anche la presenza dell’Uomo-Dio: la palma, segno antico di gloria, di risurrezione e di potenza.
Tutto è concepito secondo i vecchi canoni medievali; e qui entriamo a considerare il secondo aspetto di questo dipinto, quello formale. La composizione è contestualizzata simbolicamente e non realisticamente; non ci sono proporzioni e simmetrie fra le parti, non c’è un vero e proprio disegno armonico; i piani prospettici sono approssimativi e le figure appaiono sproporzionate nei confronti dell’insieme. Questa disarmonia è la chiave d’interpretazione del dipinto: Dio irrompe in un mondo disarmonico per ricreare l’armonia cosmica; i colori stessi sembrano illanguiditi, in attesa di qualcosa che li vivifichi e si stendono sulla tela con toni dimessi, senza quel fuoco d’impasti e di brillantezza cromatica che abbiamo apprezzato nelle tele di Lucca. È il momento prima dell’Annuncio, l’attimo in cui ancora tutto dorme, insieme a Maria, prima che la mano dell’Angelo si posi sul suo capo e le dica: “Salve, o piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei la benedetta fra tutte le donne.”
L’evento accade in Ortigia, l’antica e storica Siracusa, il luogo più popolare e più intriso di umana passione.



Le nature morte
Un paesaggista come Lucca sa come vivificare la natura; ne conosce le vibrazioni e ne scopre continuamente le pulsazioni più nascoste.
Le nature morte, ovvero la rappresentazione di fiori, oggetti, carcasse d’animali, rifiuti urbani, legni sparsi, erbe e cespugli ingranditi, intonaci scrostati, bidoni abbandonati ecc., rappresentano il mondo delle cose che ci passa sotto gli occhi, ogni giorno. Si potrebbe parlare di realismo o di didascalismo dell’opera lucchiana, ma commetteremmo il grande errore di falsare la vera prospettiva dentro la quale sono proiettate queste opere. Ancora e sempre l’oggetto è solo un pretesto “narrativo”; ciò che importa all’artista è la rappresentazione del colore, la sua manifestazione, quasi una continua perenne meravigliata epifania. Non staremo qui a ripetere le cose già dette; ricorderemo invece l’impasto cromatico denso e ricco che dà corposità alle forme; ricorderemo la ricchezza della pennellata, ora nervosa e breve, ora larga e distesa; ricorderemo il gusto di una coloristica esplosiva, a volte eccessiva e frastornante, sempre tesa alla ricerca dell’accostamento cromatico inusuale e inedito; ricorderemo la passione di un pittore che viene dalla bottega del grande Ferruccio Ferri, che fu il maestro di tanti pittori siracusani negli anni quaranta del secolo scorso e che ai suoi allievi ha trasmesso questo amore per il colore.
In quella bottega, che fu l’Istituto d’Arte siracusano, si lavorava come nelle botteghe rinascimentali, si imparava l’arte e si capivano gli intimi meccanismi della tecnica pittorica.
Lucca fu uno dei migliori allievi di quella scuola, il resto lo si deve alla sua sensibilità e al suo amore per la nostra terra.


Questa mostra antologica vuole rendere testimonianza a un vero autentico Maestro della pittura siciliana; vuole tributargli quell’omaggio ed esprimergli quei sentimenti di gratitudine per la passione e l’impegno assoluti profusi in una vita di dedizione all’arte; vuole che la sua città natale, per la quale ha uno smisurato amore, gli renda quell’onore che si tributa ai figli migliori.

ARTE E LETTERATURA



SALVO MONICA

SCULTORE E POETA

LUCI DEL TRAMONTO
Poesie 1999- 2007

Morrone Editore in Siracusa - 2007

(Conferenza tenuta da Corrado Di Pietro il 18 marzo 2008 nel salone del Palazzo della Cultura a Siracusa)



1 - L'arte come condizione di vita

Salvo Monica è uno di quei pochi artisti che hanno orientato la propria vita all’arte, non tanto all’arte come tecnica ma all’arte come conoscenza. La strada dell’arte è la strada della conoscenza, del percorso spirituale e introspettivo che si manifesta nella ricerca delle forme e degli esiti artistici.

Quante volte Monica, Lucca ed io, abbiamo parlato delle correlazioni esistenti fra arte e vita; parafrasando il grande tema medievale del rapporto fra vita e cavalleria, si può capire anche la riflessione di Monica sull’intimità connessa alle due dimensioni dell’essere: la dimensione dell’arte che contiene una visione del mondo ricca e variegata e la dimensione dell’esistenza che abbraccia la storia personale dell’artista e della collettività entro la quale l’artista stesso vive la sua vita. Questo forte legame fra arte e vita, di stampo rinascimentale, ha connotato i sentimenti, i pensieri, le accensioni fantastiche e le prostrazioni di Monica, il quale ha sentito nella sua stessa natura i piaceri e i tormenti della creazione artistica.


2 - L’arte come natura
Ma allora l’uomo nasce artista, così come nasce commerciante o scienziato?
Sì. L’uomo nasce artista. Monica affermava che ogni tanto il buon Dio, per dare un impulso forte e deciso allo sviluppo delle civiltà umane, fa nascere sulla terra un poeta o un pittore o uno scienziato o un filosofo di così grande ingegno da trascinare l’intera conoscenza umana in avanti, per un lungo tratto, quasi saltellando, per avvicinarsi sempre di più alla conoscenza ultima, all’Assoluto. Sta all’uomo stesso scoprire questa sua vocazione e seguire con dolcezza questa inclinazione all’arte.
La natura dell’arte risiede quindi nella natura stessa dell’artista perché l’arte è intrisa di concretezza e di fantasia, di materia e di spirito, di ricerca e di avventura, proprio come la natura dell’uomo. Ma questa natura dell’artista non appartiene solo all’uomo. Dio, creatore di tutte le cose, continua sempre la sua opera di creazione e aggiunge alla natura di questi uomini particolari ed eccezionali un po’ della sua sapienza.
Entriamo, per questa strada, nell’inestricabile foresta del destino dell’uomo. Se l’uomo partecipa, attraverso l’arte, della natura stessa di Dio, com’è possibile che in lui possa sorgere ed espandersi il seme del Male? Questo interrogativo è alla base di tutta la poetica di Monica, sin dagli inizi del suo verseggiare, come un’ossessione sotterranea, spirituale e filosofica, che si palesava soprattutto nella poesia ma che aveva anche esiti importanti nelle sculture e nei disegni sulla Bibbia.
Se c’è dunque il Male, sotto forma di seconda natura e di peccato di origine, e se c’è anche il Bene, sotto forma di tensione artistica che proviene da Dio, allora l’animo umano è un campo di battaglia dove si scontrano queste due nature e dove non sarà mai possibile trovare pace.
Questo dualismo ontologico e questa lotta di sentimenti e di visioni, ha condizionato molto Salvo Monica, non solo come uomo, imprimendogli quell’aura di mestizia e di serioso contegno che lo ha contraddistinto soprattutto negli ultimi anni, ma anche come poeta, suscitando in lui l’esigenza di una liberazione, di una purificazione per abbandonarsi all’Assoluto.
Ed ecco rifugiarsi ancora una volta nel grembo dell’arte, lui che aveva il dono di rappresentare le sue immagini nello spazio tridimensionale attraverso le sculture, in quello figurativo bidimensionale dei disegni e in quello immateriale della parola poetica.

3 - L'arte come percorso spirituale e catarsi
Allora l’arte diventa un percorso spirituale, una esplorazione del nostro cuore e della nostra mente, si fa terapia dei tanti malesseri interiori o rappresentazione dei desideri e delle allucinazioni dell’uomo.
Van Gogh scese negli abissi più profondi del suo essere e li rappresentò in una pittura drammatica e forsennata; Leopardi sublimò la propria sofferenza con la purezza della sua poesia; Manzoni incanalò la natura maligna dell’uomo nei grandi sentieri della Provvidenza Divina; Baudelaire vacillò sempre fra bene e male e svelò tutte le sozzure che giacciono in fondo al cuore dell’uomo; Lorca ammantò di ardite immagini, di suoni e di colori mai visti nella poesia, il sentimento del Fato che incombe su ciascuno di noi, Ungaretti riscattò il dolore dell’uomo attraverso la fede e la speranza cristiane; Montale rimase ancorato al senso laico della vita, senza illusioni e senza certezze ultraterrene.
Non c’è artista, vero artista, che non abbia viaggiato in questi territori dell’anima. Monica ha conosciuto le filosofie orientali, ha pensato alla reincarnazione come a un possibile percorso di salvazione, ha assaporato voluttuosamente le teorie antroposofiche di Rudolf Steiner, ha bevuto alle sorgenti poetiche di Tagore e di Gibran: da queste fonti ha tratto la convinzione che la vita è una tensione continua verso la Luce, la Perfezione, l’Assoluto, tutti termini che identificano Dio, quel Dio delle teologie orientali e delle grandi religioni monoteistiche, fino a giungere al Dio dei cristiani che negli ultimi decenni della sua vita rappresentò, attraverso una minuziosa lettura della Bibbia, la sfida più alta della sua arte. L’illustrazione della Bibbia, con oltre 80 disegni, rappresenta l’intera parabola umana, spirituale ed artistica di Salvo Monica. Rappresenta il suo cammino finale, ora lento e drammatico per le numerose soste nelle contraddizioni del mondo (la guerra, la fame, l’odio razziale, la sofferenza) ora svelto e leggero, sospinto dagli angeli e dagli spiriti eletti.
L’arte ha condotto Monica a una catarsi, a un cambiamento di stato, a una metamorfosi di pensiero e di spirito, l’ha allontanato a poco a poco dalla vita, allentando i legacci che lo trattenevano alle passioni e ai sentimenti, persino alle amicizie e agli ideali; trasportandolo verso quei cieli nuovi e terre nuove che ha sempre agognato di visitare.
Negli ultimi tempi, per una strana declinazione della sua stessa natura, ormai stanco, emaciato e scarno ha cominciato ad assumere sempre più i connotati di alcuni suoi personaggi: s’è fatto Lazzaro che si alza appena dal giaciglio, come appare in quello struggente gruppo bronzeo che sta nel cortile dell’Ospedale di santa Marta a Catania; s’è fatto Cristo, quel suo Cristo esangue ma ieratico, che vediamo in tante sculture e in tanti disegni; le sue mani si sono affusolate e alleggerite come quelle del Cristo che abbraccia la croce in un suo stupendo disegno; la sua natura, avvicinandosi alla fine, si toglieva di dosso le scorie dell’antico malessere esistenziale.
La sua poesia intanto proseguiva nel cammino della catarsi spirituale, anche se non arrivò mai, Monica, alla totale liberazione.


4 - L'arte come estetica
Questa estetica dell’arte di Monica, essenziale nei tratti e suggestiva nella forte tensione formale, così connaturata alla sua stessa vita e al suo destino, non appartiene a correnti e a generi né nella scultura né nella poesia: difficile una catalogazione perché ha una dimensione spirituale raramente riscontrabile negli artisti del novecento.
La poesia appartiene a una stilistica visionaria e apocalittica, magniloquente e melodiosa. Ha qualcosa di biblico nel passo ritmico e qualcosa di orientale nella ricchezza delle immagini. Monica sosteneva che la forma non è solo involucro esterno ma Ordine, Disciplina, Equilibrio e Bellezza. L’arte ha qualcosa di divino e la sua rappresentazione deve essere una manifestazione dello spirito dell’uomo e di Dio.
Certo, questa visione dell’arte, così altera e nobile, così sublime e coinvolgente, è molto lontana dalle speculazioni materialistiche e concettuali di tanto novecento; è lontana pure da una visione popolare e massimalista alla quale si sono appassionati tanti poeti e tanti pittori; l’arte di Monica è elitaria, aristocratica, nel senso più nobile di questi termini anche se i suoi riferimenti concreti appartengono al mondo e al mondo del dolore e della sofferenza. È aristocratica nella sua concezione ma popolare nella sua espressione.

martedì 18 marzo 2008

TRADIZIONI POPOLARI



I MESTIERI ANTICHI IN SICILIA
(Articolo pubblicato su "Ethnos - Quaderni di Etnologia" del 2004)




Il novecento, quel secolo ventesimo dell’era cristiana che abbiamo appena lasciato, è da considerarsi, nella storia della civiltà occidentale, come un tempo di passaggio, in cui sono avvenute, più o meno rapidamente, grandi trasformazioni, sia nell’organizzazione politica ed economica delle società sia nell’organizzazione del lavoro. In entrambi i casi è stato un secolo cerniera: uno snodo fra un modo vecchio di concepire il mondo e di interpretarlo e un modo tutto nuovo, frutto di conquiste sociali e tecnologiche.
Nel novecento hanno avuto luogo le attualizzazioni politiche lasciateci in eredità dal secolo precedente (mi riferisco ai sistemi nazisti e fascisti, ai regimi comunisti e totalitari, guardo anche alle repubbliche democratiche e ai vari modi di attuazione del liberalismo); e nel novecento si è protratto anche, e per buona parte del secolo, un’organizzazione del lavoro che, nelle architetture principali del mondo agro-pastorale, rispecchiava quella medievale e feudale. Io mi limiterò a trattare, per sommi capi, questa seconda parte del discorso, cioè l’organizzazione del lavoro materiale, soprattutto artigiano, in Sicilia, mettendo in evidenza l’aspetto popolare, antropologico ed etnografico dei mestieri che quotidianamente vivificavano la vita dei nostri paesi.
L’onda lunga dei modelli artigianali che ci viene dai secoli passati arriva fino agli anni sessanta, cioè fino all’avvento dell’industrializzazione, la quale introduce mestieri nuovi, sopprimendo e trasformando gran parte di quelli vecchi. Successivamente, negli anni ottanta e novanta arriva anche il computer e allora quel residuo tradizionale di gesti e di segni dell’antico lavoro artigianale scompare del tutto o diventa cimelio da ammirare in un museo o richiamo turistico da inserire in un discorso di businiss.
Fatta questa doverosa temporalizzazione vediamo ora di inquadrare meglio gli ambienti del lavoro manuale.
Gli ambiti lavorativi sono sostanzialmente quattro: il paese, la campagna, la miniera, il mare.


I mestieri nel paese
Uno sguardo panoramico sulla situazione etnologica siciliana (usi, costumi, tradizioni, feste, canti, proverbi, oggetti del lavoro manuale, manufatti d’arte e di artigianato, ecc.) ci consente di vedere una dimensione culturale abbastanza omogenea in tutta l’Isola, quasi del tutto inalterata negli ultimi due secoli, sia nell’espressione orale sia in quella materiale.
Il senso antropologico e simbolico di alcune feste come la Pasqua, il Natale, il Carnevale, o di alcune pratiche magiche, come la fattura, il malocchio, il ciràvolo, presenta gli stessi connotati in tutti i paesi di Sicilia; cambiano le forme di rappresentazione rituale, cambiano parole e gesti, cambiano gli oggetti utilizzati ma il senso intimo e profondo del rito o di una determinata tradizione resta sempre lo stesso. Per esempio, la profonda partecipazione alla passione di Cristo nella settimana santa assume la stessa intensità emotiva, morale e religiosa in tutte le città siciliane anche se i riti della Pasqua sono diversi di paese in paese.
Così è anche per la cultura orale e per quella materiale. Sostanzialmente i canti di lavoro che accompagnano la vendemmia o la mietitura o la mattanza dei tonni presentano gli stessi stilemi e gli stessi contenuti sia che si ascolti un canto di mietitura della pianura catanese o della collina ennese; le allegre canzoni che si ascoltavano a sera dopo il lungo e faticoso lavoro di raccolta dell’uva presentano gli stessi caratteri di briosa danza e di civettuolo contrasto sia che si vendemmi a Pachino, nelle terre d’oriente della Sicilia, o ad Alcamo, in quelle d’occidente; la cadenzata e criptica cialoma di Favignana ha gli stessi ritmi di quella di Capo Passero e serve dappertutto a dare il tempo ai gesti dei marinai che devono tirare le reti cariche di tonni.
Questo stesso discorso si può fare per gli antichi mestieri: la fucina buia, polverosa e affumicata del fabbro aveva quasi le stesse caratteristiche sia a Buccheri che ad Avola, così come l’odore del legno piallato era lo stesso a Lentini e a Noto, per restare in provincia di Siracusa. Da queste botteghe uscivano gli stessi utensili, gli stessi attrezzi, gli stessi manufatti da servire in casa o nei campi. Quindi omogeneità sostanziale di prodotti e di forme nella cultura materiale, stesse linee e stessi disegni, almeno per la maggior quantità di manufatti, perché avveniva non di rado che il genio creativo di qualche bravo artigiano cercasse di esprimere la propria arte in originali disegni, incisioni, ricami, come si vedono nelle bardature delle bestie o nelle trine dei vestiti.
C’è qui da dire che se la forma dell’oggetto, il suo uso e la sua funzione sono sempre gli stessi dappertutto, questi stessi oggetti possono essere personalizzati e resi veramente degni di figurare in un museo d’arte. L’arte della ceramica aveva sicuramente due livelli funzionali: quello diremo usuale, consumistico, del vasellame, delle brocche, dei piatti appena cotti e sfornati da vendersi per le strade, nelle fiere e nelle poche botteghe di regali, e quello artistico degli oggetti smaltati, disegnati e colorati, arricchiti da sculture o bassorilievi, finemente trattati nella costruzione e nella cottura; questi ultimi hanno rappresentato la nobile tradizione della ceramica siciliana oggi nota in tutto il mondo (Caltagirone, Santo Stefano di Camastra, Sciacca, ecc). A corredo di questo artigianato è sorto uno dei mestieri più caratteristici e curiosi: quello dell’acconcia brocche o meglio del conzalemmi.
Io risento ancora il grido di richiamo del conzalemmi che passava per le strade: le donne uscivano dalle case, chi con un piatto rotto, chi con una quartana (brocca), chi con un boccale, per farseli incollare. E il conzalemmi incollava i cocci, con i punti di fil di ferro e con il mastice, e venivano come nuovi quegli oggetti preziosi per la vita quotidiana. Figura tipica e curiosa, quella del conzalemmi, se anche Pirandello sentì il bisogno d’immortalarla in una spassosa e stupenda commedia: La giara!
E chi, per fare un altro esempio, non ricorda l’ammola fòrbici e cuteddha (l’arrotino) che si fermava all’angolo della strada con la bicicletta (dopo vennero anche le lambrette) sul retro della quale c’era la mola ad acqua; e chi potrà mai dimenticare l’ombrellaio il quale camminava bardato di asticciuole e di pinze, di tessuto nero impermeabilizzato, di manici: quest’uomo era provvidenziale perché aggiustava gli ombrelli e soprattutto i grandi paracqua sotto i quali si riparava il carrettiere nei suoi lunghi viaggi sopra il carretto.
Gli zingari detenevano di certo il monopolio di questi mestieri ambulanti. Oltre ai tre citati ricordo anche il capellaio o cambia capelli: ho ancora negli occhi il gesto discreto delle nostre donne che, dopo la pettinatura o dopo il taglio, raccoglievano da terra i capelli sparsi e ne facevano un gomitolo per darlo poi in cambio di un pettine d’osso (u pettini strittu); del resto i capelli non potevano essere buttati nella spazzatura per timore che qualcuno li prendesse e ne facesse oggetto di un rito di fattura. E a casa per pettinare i lunghi capelli o per lavarli ed acconciarli in occasioni di feste e sposalizi si chiamava a pilucchera (la odierna parrucchiera) e ci si serviva dei pettini di legno o d’osso realizzati rô mastru pittinaru. Gli zingari leggevano la ventura per le strade: generalmente era una donna o un ragazzo che portava a tracolla una cassettina piena di bustine di diverso colore; sopra la cassettina c’era un pappagallo dentro una piccola gabbia: la zingara sollevava di poco lo sportellino e il becco del pappagallo afferrava una bustina e la consegnava alla padrona; questa apriva il foglietto e leggeva la ventura (il destino). Si trattava naturalmente di giudizi preconfezionati, buoni per ogni occasione, ma vi assicuro che la cosa funzionava bene e non erano pochi quelli che si facevano consegnare la bustina. Del resto oggi non si fa così anche con gli oroscopi?
Le strade dei nostri paesi erano dei mercati: passavano carretti carichi di ogni mercanzia: vasellame, pentole in alluminio, ombrelli, tessuti e vestiti, recipienti per liquidi e solidi, generalmente di latta, sedie impagliate o con piano in compensato; tutto quello insomma che si poteva vendere era venduto così come avveniva al tempo degli antichi romani e poi nel medioevo e poi nell’ottocento e nel novecento, non trascurando il fatto che anche oggi quest’usanza è ancora molto frequente, soprattutto con l’avvento degli extracomunitari.


I mestieri dentro le botteghe
Ma i mestieri più remunerativi e professionali si svolgevano nelle botteghe: falegnami, fabbri ferrai, stagnini, calzolai, mastri carradori e bottai, sarti, barbieri, orefici, tessitrici, putiari, macellai. Non c’erano nei paesi i negozi che ci sono ora: quei pochi vestiti che si confezionavano (in occasione della festa del Santo Patrono) venivano cuciti dal sarto, su misura; e così avveniva per le scarpe realizzate su misura anch’esse dal calzolaio; così pure si procedeva per tutti gli altri oggetti della casa, dal tavolo tondo al letto, dall’armadio alla tinozza, dalla coperta di ciniglia ai bei lenzuoli ricamati, dalla botte per il vino agli attrezzi del lavoro in terra o in mare.
Molti sono i mestieri e le forme dell’artigianato siciliano in questo periodo e forse non sarei capace di ricordarli tutti: ma su uno di questi mestieri voglio spendere una parola di più: il barbiere.
Ogni barbiere aveva un gruppo di clienti costanti, in abbonamento mensile o, come avveniva nei paesi montani della nostra provincia, ad anno, naturalmente dopo la raccolta del grano. I compensi potevano essere in natura o in denaro ma il baratto era la forma più naturale almeno fino agli anni cinquanta. Nella sala da barba avvenivano diverse cose: oltre al taglio dei capelli e alla rasatura del viso, non di rado si cauterizzavano (stagnavano) piccole ferite, si mettevano le sanguisughe (sanguette) per i salassi, si cavava qualche dente, si giocava a dama o a carte, si improvvisavano dei concertini con chitarre e fisarmoniche, si chiacchierava di politica, di donne, di gioco, di lavoro, di tutte le cose che s
uccedevano
in paese; era insomma una piazza in miniatura perché spesso si contrattava il lavoro o la vendita di un mulo o di un campo o si realizzavano amicizie e comparatici. Il profumo delle lavande e del borotalco ci accompagnava per tutto il giorno e i capelli impomatati e tirati a lucido sfidavano ogni capriccio di vento; e poi quel calendarietto profumatissimo di fine anno, con la cordicella colorata in mezzo e il giummo pendente, illustrato con donnine seminude, procaci e voluttuose, che mettevamo nel taschino della giacca quasi per nasconderlo dagli occhi indagatori delle nostre mogli o delle nostre madri!
La sala da barba era elegante, rispetto alle altre botteghe o agli altri luoghi di lavoro; piena di specchi, di mensole, di armadietti, di bottigliette, di saponi, di pettini e spazzole; due o tre poltrone larghe, di stile liberty, avvolgevano il cliente e lo sprofondavano quasi subito in un torpore onirico mentre il suono delle voci degli altri clienti si confondeva nella mente e si affievoliva fino a diventare un lieve ronzio.
Nella sala da barba ognuno aveva un titolo: cavaliere, commendatore, barone, massaro, don, mastru, oppure dottore, professore, ingegnere, ecc.; i signori erano pochi. Si andava ben vestiti o almeno puliti e ordinati e non come si veniva dalla campagna. Oggi le sale da barba hanno mantenuto qualche antico segno ma l’atmosfera non è più la stessa e la fretta che abbiamo non ci consente neanche qui di rilassarci.
Già la fretta! Soffermiamoci un momento su questo punto.
I nostri paesi venivano abbandonati ogni mattina da centinaia di braccianti e jurnatari che andavano a lavorare nei campi; molti giovani si chiudevano nelle aule scolastiche, altri prendevano la corriera per andare a lavorare o a studiare in altre città vicine. In paese restavano le donne, i bambini, i vecchi, gli artigiani e i professionisti, oltre ai religiosi. Su queste categorie di persone poggiava quasi tutta la vita del paese, da quella politica a quella civile; i tempi del fare quotidiano erano lenti, pensati, meditati, forse anche troppo, ma consentivano a tutti di stare dentro i ritmi sociali, anche ai ritardati mentali o agli handicappati. Le donne scendevano in strada per comprare le merci e per parlare fra di loro, i ragazzi giocavano liberamente nei cortili e nelle strade, i vecchi restavano seduti per tutta la giornata davanti l’uscio di casa fumando la pipa e salutando ora questo ora quel passante; i bottegai, gli artigiani, i professionisti discutevano anche animatamente con i loro clienti sul prezzo, sulla manifattura, su come intraprendere una causa o un progetto; si camminava quasi sempre a piedi e si era abituati ad aspettare dietro una porta per ore ed ore. Il tempo era veramente relativo, era un’entità astratta che si misurava più col sole che con l’orologio. Così anche i tempi di consegna dei manufatti erano lunghi e generalmente si stabilivano secondo il calendario delle feste religiose o di settimana in settimana. Anche i pagamenti, come abbiamo visto, avvenivano solo dopo la raccolta del grano, delle mandorle, del mosto, dei cereali. A questo proposito vi racconto come venivano contabilizzate le prestazioni nella bottega del fabbro, nei paesi collinari dell’entroterra siracusano.
Per la ferratura di un mulo si segnava una tacca in un’asticciuola di legno, ’a tagghia (la taglia), divisa longitudinalmente in due parti perfettamente combacianti; una si dava al cliente come ricevuta e l’altra, la matrice, la tratteneva il fabbro. A fine stagione si contavano le tacche segnate con numeri romani sulle due parti dell’asticciuola. Vi assicuro che non poteva esserci alcuna contraffazione o falsificazione perché le due parti dell’asticciuola in legno dovevano combaciare perfettamente.
Negli anni sessanta la tecnologia entra prepotentemente nelle botteghe e i processi produttivi si velocizzano, si semplificano, si affinano; diminuisce il bisogno di braccia lavorative e aumentano invece le richieste di operai specializzati.
Nelle falegnamerie entrano le piallatrici e le seghe elettriche, i fabbri conoscono le prime macchine per piegare il ferro e compaiono altri materiali come il ferro zincato e poi l’alluminio anodizzato, i sarti sono agevolati dalle macchine per cucire che li tolgono dalla schiavitù dell’ago, le lavatrici elettriche fanno scomparire quella tipica figura paesana della lavandaia che si vedeva tutti i giorni china su lenzuoli immersi in acqua e sapone di soda nei lavatoi pubblici o nei fiumi.
Il tempo si comincia a contare con l’orologio, si scandisce meglio e con più determinazione nel vissuto quotidiano e spesso condiziona gli stessi ritmi del lavoro.


I mestieri all’aperto
Molto spesso la bottega aveva un’appendice fuori di porta (come avviene anche oggi). Il falegname o il fabbro o il salumiere, il formaggiaio, il pescivendolo, il verduraio lavoravano anche fuori, sul marciapiedi o direttamente sulla strada; la cosa è ancora evidente nelle officine meccaniche o in quelle dei fabbri. Ma i veri mestieri all’aperto che si svolgevano in paese erano soprattutto due: il muratore e lo spazzino.
Il muratore era il più sofisticato artigiano che si potesse avere: sapeva costruire case, gebbie, pozzi, canali d’irrigazione, strade, ponti, piazze e spesso conosceva anche bene altri mestieri come quello del tubista, dell’elettricista, insomma era un professionista a tutto tondo. Di più bassa condizione ma non meno indispensabile era u scupastrati, (questo termine ha subito in italiano una curiosa evoluzione: spazzino, netturbino, operatore ecologico, segno di un significativo miglioramento del proprio status).
Nei primi decenni del secolo, prima dell’avvento della luce elettrica, si vedeva girare di notte anche u lampiunaru, l’addetto all’accensione e allo spegnimento dei lampioni che allora erano provvisti di lanterne ad olio.
Un’altra figura tipica era u vanniaturi, il banditore che veniva inviato dall’amministrazione comunale per comunicare qualcosa ai cittadini, oppure veniva assoldato da un negoziante per annunciare una campagna commerciale di sconti o veniva utilizzato in altre occasioni in cui si doveva dar voce a un fatto o a una notizia che riguardasse la collettività.
Un’altra figura particolarissima, curiosa e inquietante era quella del pircantaturi: il termine deriva da pircantari, stare immobile, quasi imbalsamato, di fronte a qualcuno. Chi aveva dato in prestito dei soldi e non se li vedeva restituiti dentro i termini pattuiti, assoldava u pircantaturi il quale si piazzava, immobile e senza dir niente, davanti l’uscio di casa del debitore e da lì non si muoveva fino a quando il debito non veniva saldato. Era una specie di denuncia, di accusa sociale; una denigrazione per il debitore e per la sua famiglia. C’era insomma da vergognarsi!
In molti paesi dell’entroterra siciliano, in zone collinari e montagnose, c’erano molte niviere: erano dei fossi grandi e profondi dove, in inverno, veniva depositata la neve; in estate molti venditori di neve, con i carretti pieni di ghiaccio conservato fra la paglia, scendevano nei paesi marini per vendere lastre di ghiaccio, così come altri venditori ambulanti inondavano le strade di questi paesi assolati e caldi, che per buona parte del giorno echeggiavano dei tipici richiami dei venditori di uova, di formaggi, di galline, di cetrata, di foglietti musicali (vi ricordate del pianino?), di scope di ampelodesmo, di pentole di stagno, di carrettini siciliani, tamburelli, bambole, ferri per lavorare a maglia, ecc.

I mestieri fuori dal paese
Pochi sono i mestieri che si svolgevano fuori dal paese: il contadino, il carrettiere, il pastore e il pescatore; nel centro della Sicilia c’era anche lo zolfataro.
Su ognuno di questi mestieri è fiorita una letteratura immensa né qui si ha la pretesa di approfondirne gli aspetti e presentarli nella loro molteplice funzione. Mi limiterò dunque a qualche accenno.

Il contadino
Il contadino è una figura quasi primordiale, ontologica del nostro stesso essere o della nostra natura. È il conoscitore profondo dei ritmi della natura; venti, nuvole, piogge, stagioni, fasi lunari, e poi la terra e i sistemi d’irrigazione, la costruzione di attrezzi per i lavori dei campi, animali e piante, tutto egli osserva, studia, conosce, utilizza per avere un buon raccolto.
Il contadino ha una saggezza antica e una bonomia ancestrale; da lui sono nati molti dei proverbi che girano in Sicilia; lui ha creato gran parte dei canti d’amore e di sdegno, di preghiera e di invocazione; lui sa essere un lavoratore solitario o uno dei tanti che compongono la ciurma (indice questo di una forte duttilità operativa); lui sa gestire la propria attività e all’occorrenza sa anche comandare un gruppo di lavoro; lui sa fare le operazioni più delicate in campagna, come innestare, potare, seminare, impiantare un terreno con colture specialistiche (vigneti, agrumeti, serre); sa lavorare il legno, il giunco, la canna, per costruirsi alcuni attrezzi; sa tracciare solchi e canali di scolo delle acque con sorprendente precisione.
Il contadino ha avuto anche un lungo e tormentato status sociale: da schiavo a valvassino, da servo della gleba a jurnataru e viddhanu, poi bracciante, agricoltore, massaro, sia che avesse in proprio i terreni o li conducesse per altri. La società occidentale per molti secoli ha dovuto interrogarsi sul ruolo dei contadini e gli altri ceti hanno dovuto scontrarsi spesso con quello dei contadini: voglio qui ricordare solo le lunghe e a volte sanguinose lotte per l’occupazione delle campagne o per una migliore dignità del lavoro contadino. Quello del contadino non è solo un mestiere, ma come ho già detto prima, è una condizione di vita, quasi una funzione sociale. La storia della nostra stessa civiltà si identifica per lungo tempo con la civiltà contadina e il periodo che noi stiamo trattando può essere definito, antropologicamente, periodo della cultura contadina.


Il carrettiere
Questa è una figura molto pittoresca, tra il guascone e il malandrino. Naturalmente io mi sto riferendo a chi per mestiere portava merci da un paese all’altro. Per delineare questa figura consentitemi di avvalermi di una mia intervista a Nunzio Bruno, l’artista floridiano che è un profondo conoscitore della cultura materiale, tratto dal mio libro “Alla tavola di Nunzio Bruno” del 1994.
“Il carrettiere era un fanatico e vestiva festosamente colorato: fazzoletto bianco che faceva capolino dal taschino della giacca di velluto marrone; pantaloni di velluto o di fustagno. Era una specie di dongiovanni, perennemente innamorato e poeticamente sensibile alle grazie femminili.
Amava la musica e il canto e si accompagnava con quello strano strumento di metallo che produce una sola nota bassa e che ha diversi nomi: nganna larruni (inganna ladroni), marranzanu, scacciapinseri, mariuolu. Le canzoni d’amore, di rabbia o di sdegno, di lontananza e di attesa, fiorivano sulla sua bocca con le immagini più calde e appassionate, e si cadenzavano in un ritmo lento e prolungato, variato e polifonico; anche il passo del mulo diventava strumento, anzi batteva il ritmo al cigolìo del carro e alla voce aperta e modulata del carrettiere.”
Era un mestiere remunerativo, quello del carrettiere, faticoso ma interessante perché si giravano molti paesi e si conosceva gente e si apprendevano notizie e storie che poi si portavano nei propri centri. Credo che uno dei protagonisti assoluti della circolazione e della varietà della tradizione orale in Sicilia sia stato proprio il carrettiere.


Il pastore
Le origini di questo mestiere si perdono nella notte dei tempi, anzi la pastorizia fu la prima forma di lavoro e di mantenimento alimentare delle prime comunità umane. La pastorizia è fondata sul nomadismo ed essenzialmente su tre prodotti che gli animali possono fornire: la carne, le pelli e il latte. Su ognuno di questi prodotti sono nati prima altri mestieri come il macellaio, il conciatore, il curatolo, e poi le varie industrie di settore. Il pastore ha pochi arnesi ed attrezzi, pochi vestiti e poca roba: il vincastro, quel bastone tipico di biblica memoria, lo zufolo di canna per allietare la sua solitudine con la musica, il tascapane, una specie di borsa in cotone o juta dove trovano posto il pane, un pezzo di formaggio, le olive e qualche altro oggetto d’uso personale. La letteratura siciliana si è spesso interessata di questa figura inserendola ora nei quadri idillici dell’arcadia ora nelle fosche atmosfere della mafia. Generalmente è un bravo intagliatore di bastoni e di canne, un profondo conoscitore del tempo meteorologico e un uomo che riesce a stare solo per giorni e giorni.


Il pescatore
Il pescatore è l’omologo del contadino; il mare è la sua campagna e dal mare egli trae sostentamento. Ricchissimo è il corredo di attrezzature che abbisogna al pescatore e varia a seconda della tipologia di questo professionista. Vorrei fare un solo esempio, quello della tonnara. È questa una delle occasioni più tipiche di lavoro a mare, in cui si organizzano le operazioni quasi industrialmente, con compiti e ruoli precisi, sia a mare che a terra. I marinai, che durante l’anno hanno solcato il mediterraneo sotto il sole, il vento e la pioggia, ora diventano tonnaroti e, ai comandi del Rais, danno luogo con vari attrezzi (aste, spette, masche, corchi) al rito cruento della mattanza. Non è questa l’occasione per soffermarci sui caratteristici momenti di questa violenta pesca ma basti dire che ogni movimento, ogni barca e ogni attrezzo ha una funzione prestabilita, sincronizzata, ordinata al medesimo fine, che è quello di chiudere i tonni nella camera della morte e poi tirare le reti fino a farli emergere dall’acqua e con ferri ad uncino caricarli nelle grandi barche. Portati a terra, nel caseggiato del marfaraggio, i tonni vengono squartati, puliti, selezionati nelle loro parti, cotti e inscatolati: tutte operazioni che richiedono altre specializzazioni, altri mestieri. La tonnara è un’industria completa, anzi un piccolo villaggio di alcune centinaia di persone che per alcuni mesi dell’anno vivono un’esperienza comunitaria fortemente coinvolgente e sentita.


Il minatore
Le miniere di zolfo dell’entroterra siciliano sono state efficienti fino alla seconda guerra mondiale. Nei profondi pozzi di zolfo si entrava da bambini e si usciva quando, da adulti, i polmoni non ce la facevano più a respirare. Una vita da cani, non un mestiere, una condizione anche questa dell’essere, anche questa ontologica di uno status che passava da padre in figlio, come una maledizione e non come un lavoro.


Conclusione
Nella Sicilia del novecento chi imparava un mestiere non lo cambiava più per tutta la vita; se lo portava addosso come una seconda pelle e spesso gli si affibbiava una nciuria (ingiuria) che rimandava al mestiere stesso.
Questi artigiani, contadini, pescatori, costituirono per lungo tempo quel ceto medio basso sul quale gravava la produzione economica, alimentare e materiale; a loro furono rivolte le attenzioni politiche dei governi, ora per illuderli, ora per sfruttarli ora per educarli e istruirli. La storia di Sicilia è stata scritta sulle loro spalle e non sulle spalle del ceto nobiliare e clericale, anche se questi due ceti amministravano il potere. Noi siamo gli eredi di questo ceto, i custodi dell’antico sacrificio dei nostri padri; di questo dobbiamo sempre essere consapevoli, anche quando diventiamo ricchi e importanti. Molte di queste categorie artigianali si organizzarono, nei secoli, in compagnie, in fratellanze, in confraternite che non avevano soltanto uno scopo di mutuo soccorso ma anche una forte connotazione socio-politica e religiosa e condizionarono per lungo tempo l’economia di interi paesi e città; influirono sull’organizzazione delle feste religiose condizionandone il ritualismo e qualche volta anche la liturgia e spettacolarizzarono le processioni per le quali ancora in Sicilia si nutre tanto interesse.

lunedì 17 marzo 2008

LA MORTE DI ORLANDO


LA MORTE DI ORLANDO

Un testo per menestrello e pupi, liberamente tratto da
“La chanson de Roland”


















Siracusa gennaio 2008



Personaggi
Menestrello

Pupi
La Morte
Carlo Magno
Tre angeli

Cristiani
Orlando, paladino
Carlo Magno, Re dei Francesi
Turpino, vescovo
Oliviero, paladino
Astolfo, paladino
Aquilante, paladino
Ruggiero, paladino
Anselmo, paladino
Gano di Maganza, paladino
Alda, fidanzata di Orlando
Namo, vecchio cavaliere cristiano

Saraceni
Marsilio, emiro saraceno
Aelrotte, nipote di Marsilio
Falsarone, fratello di Marsilio e duca saraceno













Primo Tempo






Prologo

Scena I
Menestrello

A sipario aperto: campo di battaglia di Roncisvalle; corpi di paladini e saraceni distesi per terra, morti. Il corpo di Orlando è posto sul lato destro della scena, appoggiato sopra una grande roccia, sotto un albero; accanto giace il corpo di Oliviero.
Luce fredda (blu, viola, verde). Musica lenta, di tipo medievale, vagamente triste.
Entra dalla sala un menestrello, vestito in modo sobrio. Con lenti movimenti, guardando lo scempio di cadaveri sopra il palco, accompagnandosi con la chitarra, intonerà questo canto.

Menestrello Stolti gli uomini che muoiono
per la gloria di altri uomini.
L’arroganza e il potere uccidono
più delle spade.
Ma è forse più bella la morte
se un Dio la vuole?
Ed è più sacro il suolo dove giace
il corpo esanime del martire?

Quanti corpi abbandonati su queste pietre:
contorti, mutilati, esangui!
Quanti uomini forti e coraggiosi
si sono scontrati qui, con ruggiti di leone,
ciechi d’ira e di menzogne,
ferro contro ferro, lama contro lama,
sangue contro sangue!

Oh, Roncisvalle, altare di Dio!
Oggi sulla tua terra è stata celebrata
una messa di martirio e nel nome di Cristo
un calice di sangue è stato versato
dalla migliore gioventù di Francia.





Rappresentazione con i pupi

Scena I
La Morte e Re Carlo

Morte: Ecco, solo ora giunge Carlo, il grande Re di Francia. Giunge per contare solo i morti!

Carlo: (Può essere vestito con armatura o con abiti regali; avrà in ogni caso il mantello di porpora e la corona in testa. Entra lentamente, affranto)
Morti, tutti morti! Morti i miei paladini, amatissimi figli! Morti per la mia ingenuità! Mia è la colpa, mio tutto il dolore! Orlando, dov’è il conte Orlando, il mio amato nipote?

Morte: È disteso sopra quella roccia. Dorme anche lui il sonno dei giusti.

Carlo: Chi sei tu che sola parli, viva, in mezzo ai morti?

Morte: Neanch’io sono viva. Sono un fantasma; io sono la Morte che viene a raccogliere i corpi di questi sventurati. Le loro anime sono già in Paradiso e l’anima di Orlando è stata portata in cielo da due arcangeli, Gabriele e Michele, insieme all’angelo Cherubino.

Carlo: (avvicinandosi al corpo di Orlando e gridando)
Orlando, mio valoroso paladino, amato nipote, perché hai suonato il corno con così colpevole ritardo? Perché tutto questo sangue, mio Dio? (piange). É mia la colpa, io sono stato ingannato, tradito da Gano di Maganza. Vile! Avrai il castigo che meriti!
Ma ora nel mio cuore non c’è posto per la vendetta; ora il mio cuore è un mare di pietà per questi miei paladini sventurati.
Nascerà mai nelle case di Francia una gioventù d’eroi come questa, il miglior vanto d’ogni corte? O tutto è finito e una notte senza fine avvolgerà i cuori e le menti delle nuove generazioni, un lungo silenzio della fede e dell’onore?
Oh, miei paladini, figli del mio dolore! Orlando, Oliviero, Ruggiero, Grifone, Astolfo, Aquilante, siete tutti morti, freddi come la pietra, come questa pietra cupa e spoglia che s’apre nel fianco della montagna.
Roncisvalle! Sarai tu per sempre il segno più alto della fede di Francia, tu sarai l’onore più grande del mio regno, il simbolo d’un martirio che parlerà ai cuori di tutti gli uomini.
Affido ai poeti la tua memoria e a Dio tutte queste croci.

Morte: Vieni, o re potente, lascia a me il compito della sepoltura; vieni Carlo, allontanati da questo cimitero e dimmi invece come avvenne questo scempio, perché giunse così tardi il tuo esercito.

Carlo: Ti racconterò ogni cosa, affinché tutti sappiano del sacrificio di Orlando e degli altri cavalieri; e sappiano anche di come l’invidia e il tradimento portino l’uomo al disonore e all’assassinio.
Per sette anni ho portato guerra in Spagna, combattendo contro i pagani dell’emiro Marsilio. Ho sottomesso quasi tutta la Spagna, tranne alcune città, fra cui Saragozza, dove si è rifugiato Marsilio con altri due re pagani, Bulugante e Falserone. Prima di sferrare l’attacco decisivo ho voluto riunire in consiglio i pari di Francia, per sentire le loro opinioni.

Mentre Carlo sta parlando, la luce si abbassa fino a restare un barlume appena visibile. Si provvederà intanto a cambiare il fondale e la scena. Una musica maestosa accompagnerà il cambio di scena.
Uno alla volta entreranno i paladini e il vescovo Turpino. Suoneranno le trombe e una musica regale si farà sentire in sala. L’esercito carolingio campeggia davanti a Cordova, che si vede sul fondale. Tutto si sistema per il consiglio di guerra che si svolge in giardino.







Scena II
Carlo, il vescovo Turpino, il vecchio Namo, il conte Orlando, Oliviero, Astolfo, Gano, Aquilante e Anselmo.

Carlo: Turpino, pastore di Cristo e mio vescovo, e tu, conte Orlando, il più prode fra i miei cavalieri, e anche voi miei paladini, Aquilante, Anselmo, Astolfo, Gano, Oliviero, (i paladini nel sentire il loro nome faranno un inchino) valorosa stirpe di Francia, e tu Namo, compagno di tante battaglie, ascoltate: vi ho riuniti in consiglio per decidere ciò che dobbiamo fare contro i saraceni. Il re Marsilio, comandante della guarnigione di Saragozza, che ancora valorosamente ci resiste, ha mandato ambasciatori per chiedere tregua e pace. Io dunque vi chiedo: dopo tante vittorie volete continuare ancora la guerra finché il nemico non sia completamente sottomesso oppure vogliamo accettare l’invito di Marsilio a deporre le armi e a ritirarci nelle nostre terre?

Orlando: Mio re e mio signore! Siamo venuti fin qui non per fuggire come pavide donnette ma per liberare la Spagna dal paganesimo e riportare la croce di Cristo sopra i campanili delle chiese. Perché dovremmo ritirarci proprio ora che siamo all’ultimo assalto? La vittoria non può sfuggirci! Abbiamo un esercito di valorosi soldati, pronti a morire per Cristo e per il loro Re. Guerra deve essere e guerra sia! Questo è il pensiero di Orlando!

Aquilante, Anselmo, Olivieri: Guerra, guerra!

Turpino: Dice bene Orlando quando afferma che siamo venuti fin qui per riportare la Spagna a Cristo. È questo il nostro scopo, l’alta missione alla quale Dio ci ha chiamati. Ma Dio non vuole che si sparga sangue inutilmente, neanche quello dei pagani. Se un’altra strada si può percorrere verso la conquista cristiana della Spagna, senza più lotte e morti e dolore, questa la nostra coscienza di cristiani ci impone di percorrere fino in fondo. Ascoltate dunque la mia proposta. Sia mandato un messaggero a Saragozza, da Marsilio, con il compito di concordare la tregua a patto che lui e tutti i pagani di Spagna si convertino al cristianesimo. Se riceveranno il battesimo noi avremo raggiunto pacificamente il nostro intento e non ci sarà guerra. Se Marsilio non accetterà queste condizioni, allora si continui l’assalto a Saragozza.

Gano: La proposta del nostro vescovo mi pare sensata; e Marsilio non è uno stupido e sa quando deve cedere. Sia inviato dunque un ambasciatore a Saragozza con la proposta di Turpino.

Namo: Io sono d’accordo con Gano. Sono sette anni che siamo fuori dalle nostre case e molte madri francesi hanno pianto i loro figli. Fino a quando dovremo combattere e morire? Voi, o sire, avrete sulla coscienza il sangue di questi coraggiosi e non potete distruggere un esercito allorché vi viene fatta una proposta di pace. Quale onore si difende nell’uccidere i nostri fratelli, anche se credono negli idoli o in altri dei o in un dio molto simile al nostro ma che porta un altro nome? Io sono vecchio e il mio braccio è debole e insicuro. Non posso seguirvi nella battaglia; ma posso consigliarvi, perché ho vissuto molte esperienze e ho conosciuto molti uomini. Il bene o il male non stanno da una sola parte ma si mescolano e convivono in ogni popolo, anche nella stessa persona, come due serpenti che si combattono. La saggezza di ogni uomo risiede nella scelta del bene e della verità. Ora è stata una scelta buona e vera quella di ricondurre a Cristo il popolo spagnolo, ma non sarebbe altrettanto buono e santo perseverare nella vendetta e nella guerra quando sia caduto ogni motivo di contesa.

Carlo: Namo, mio vecchio e saggio amico! Le tue sono parole giuste e voglio prendere il tuo consiglio. Sia scelto un messaggero tra di voi che vada da Marsilio a portare le nostre condizioni.

Orlando: Maestà, ho combattuto mille battaglie nel vostro nome e ho sempre vinto. Ora perché non avete più fiducia in me? Datemi un esercito e abbatterò le mura di Saragozza, metterò le catene al vile pagano e alzerò il vostro vessillo sulla torre più alta della città.

Carlo: Orlando… Orlando! Un re non governa solo con la spada ma anche con la saggezza. Le parole di Turpino e di Namo mi sembrano sagge e io le seguirò. Conserva dunque la tua baldanza per le altre imprese che ti aspettano. Vuoi essere tu il mio messaggero?

Orlando: Sire, come potrei essere io portatore di pace se nel mio cuore c’è il tumulto dell’ira contro i pagani? Non sarei un buon ambasciatore e potrei fare qualche gesto insensato. Inviate invece Gano di Maganza, che ha accettato la proposta di Turpino ed è pure un valoroso guerriero. Sia concesso a lui l’alto onore di rappresentarvi nella trattativa.

Gano: Perché il mio figliastro Orlando ha fatto il mio nome? Non sa egli che chiunque sia andato da Marsilio per portare ambasciate non è più tornato? Vuole forse Orlando la mia morte?

Orlando: Tu solo, Gano, puoi andare. Tu sei forte e scaltro, sai parlare bene e hai buone possibilità di riuscita. Chiunque di noi non riuscirebbe nell’intento. Hai forse paura?

Gano: (rivolto verso il pubblico, sottovoce) Orlando certamente mi odia come io odio lui. Egli, il grande eroe, non vuole andare perché sa di trovare morte sicura.

Carlo: Gano, Orlando ha ragione. Tu mi sembri il più adatto. Il tuo valore è indiscutibile e io ho piena fiducia in te.

Gano: Non sono un vile e non ho paura di affrontare il nemico. Se è questo il volere del mio signore, questo io farò!

Carlo: E questo sia fatto. Preparati a partire, conte Gano. (Escono tutti, tranne Gano).










Scena III
Gano.

Gano: O luna placida e silente, tu mi sei testimone. Le parole di Orlando sono la mia condanna a morte, ma non tutto è ancora finito. Se rivedrò la mia dolce terra, il mio figliolo amato e la mia donna, giuro che mi vendicherò di Orlando. Gli restituirò questo “favore” e sarà per mandarlo a morte sicura, come egli ha voluto per me. Addio, miei amici e miei affetti più cari, io vado a Saragozza, nei palazzi del nemico che fino a ìeri ho combattuto, ma un destino oscuro mi attende; più oscuro di questa notte che mi opprime con la sua tenebra.
(Esce di scena.)






Scena IV
Marsilio, Aelrotte, Falsarone, altri saraceni riuniti in consiglio.

La corte di Marsilio, a Saragozza. È giorno.

Marsilio: Principi e nobili d’Asia e d’Africa. Abbiamo ricevuto da Re Carlo di Francia un messaggero che porta le condizioni per una tregua fra i nostri eserciti. Sette anni di lotte e di battaglie hanno stremato i nostri uomini e se ci viene offerta una pace onorevole io intendo accettarla. Vi prego dunque di ascoltare l’ambasciatore di Carlo.
Sia condotto l’infedele alla nostra presenza.






Scena V
Detti e due pagani che conducono Gano davanti a Marsilio


Marsilio: Parla, dimmi cosa vuole il tuo Re.

Gano: O grande condottiero, generoso e potente signore. Io sono Gano di Maganza e porto i sacri segni del messaggero. Qualunque cosa io dirò sarà come se l’avesse detta Carlo, re di Francia. Rispetta dunque la mia persona.

Marsilio: È forse l’onore dei saraceni inferiore a quello dei cristiani? Parla liberamente e non ti sarà fatto alcun male.

Gano: Le condizioni di Carlo per il ritiro delle sue truppe sono queste: convertitevi al cristianesimo, accettate il battesimo di Cristo e l’esercito francese lascerà il campo e la terra di Spagna.

Marsilio: Pazzo, pazzo! Il tuo re è pazzo. Queste non sono condizioni accettabili!

Gano: Possono diventarle se accettate solo per finta.

Marsilio: Cosa vuoi dire. Parla.

Gano: Fate finta di accettare il battesimo e Carlo intanto si allontanerà con il grosso del suo esercito. Resterà solo una piccola retroguardia insieme al vescovo Turpino per dare il battesimo a voi e alla vostra gente. In questa retroguardia ci saranno i paladini di Carlo, i suoi più fedeli e forti guerrieri. Voi li assalirete e li ucciderete tutti, perché sono loro che lo istigano alla guerra. Carlo subirà un colpo tremendo e accetterà la pace che voi vorrete offrirgli, alle vostre condizioni.

Marsilio: E voi fareste tutto questo? Perché? Cosa volete in cambio?

Gano: Mi ricompenserete a cose fatte. Io voglio la morte di Orlando e dei suoi compagni paladini. Senza di loro re Carlo non se la sentirà più di combattere e sarà un re debole e insicuro.

Aelrotte: E io potrò finalmente bagnare la mia spada nel sangue di Orlando. Solo il rumore del mio ferro si udrà in battaglia e ogni infedele sarà punito per l’oltraggio a Macone.

Falsarone: Aelrotte, trattieni il tuo impeto e sappi che Orlando è un valoroso guerriero. Tu dovrai essere molto forte e abile per poterlo abbattere. E tu, Gano di Maganza, non sei degno di chiamarti cavaliere. I traditori non sono ben visti neanche nei nostri accampamenti. Tuttavia la guerra ci induce a usare anche i vili come te e la tua proposta mi sembra proficua per i nostri scopi. Marsilio, fratello mio, io sono d’accordo; facciamo come dice Gano.

Marsilio: Bene, conte Gano! Vi darò degli ostaggi e le chiavi della città. Portateli al vostro re e ditegli che Marsilio e i suoi generali accetteranno il battesimo dalle mani del vescovo Turpino a Roncisvalle. Voi assicuratevi che nella retroguardia vi siano tutti i paladini, compreso Orlando.

Gano: (emette una risata stridula) Sarà così. Ora vado.





Scena VI
Re Carlo, il vescovo Turpino, Orlando, Olivieri, Gano e il vecchio Namo.

Accampamento di Carlo. È giorno.

Carlo: E così Marsilio ha accettato tutte le nostre condizioni! Humm …! Non ne sono molto convinto. Chi ci assicura che manterrà la parola?

Gano: Sire, ve lo posso assicurare io stesso. Marsilio vi ha rimandato liberi molti prigionieri, vi ha inviato regali e tributi in denaro e in stoffe preziose, vi ha rimesso le chiavi della città in segno di completa sottomissione. Cosa avrebbe potuto fare di più? Io stesso mi faccio garante del suo leale operato. Marsilio vuole prendere il battesimo insieme alla sua corte ma teme l’insorgere dei suoi nemici a Saragozza. Mi ha pregato quindi di incontrare il vescovo Turpino da solo, fuori dalla città, presso il valico di Roncisvalle, per la cerimonia del battesimo.

Carlo: Bene! Faremo in questo modo. Tutto l’esercito si ritirerà oltre i Pirenei mentre una nutrita retroguardia con i miei paladini ci coprirà le spalle proprio a Roncisvalle, dove aspetterà con il vescovo il pagano Marsilio e la sua corte. Ora si tratta di scegliere il comandante della retroguardia.

Gano: Maestà, chi volete che possa guidare la retroguardia se non Orlando? Non è egli il più valoroso fra tutti, il più intrepido e ansioso di combattere. Tocca a lui il comando!

Carlo: Gano, tu sai quanto sia pericolosa questa missione. Perché dovrei rischiare la vita del migliore dei miei paladini?

Gano: La vita di un cavaliere appartiene al suo re. Io vi ho dimostrato la mia fedeltà e il mio coraggio. Ora tocca a Orlando.

Orlando: Le parole di Gano sono subdole ma veritiere. Nascondono un sotterfugio che fa apparire falso tutto quello che dice. Tuttavia ha ragione quando afferma che la vita di un cavaliere appartiene al suo re. Per questo, sire, concedetemi l’onore di guidare la retroguardia e di proteggere le vostre spalle. Se sarà necessario tingerò di sangue pagano le pietre di Roncisvalle.

Carlo: E sia come tu vuoi! Solo una cosa promettimi: se dovessi essere attaccato dall’esercito di Marsilio, suona l’Olifante e io accorrerò con tutte le forze. Ed ora che Iddio, per il quale abbiamo cominciato questa santa impresa, ci conceda la sua protezione e il suo beneplacito. (Escono tutti tranne Orlando).






Scena VII
Orlando
Si smorzano le luci mentre Orlando si inginocchia e prega

Orlando: O Dio benigno e santo, a quale impegno sovrumano tu mi chiami? Perché un triste presagio appesantisce il mio cuore e il mio corpo si sente svuotato? Tuttavia, così come avvenne per il tuo Figlio nell’ultima notte della sua vita mortale, sia compiuto il disegno che per me hai deciso, o Padre santo e caro.





Scena VIII
Orlando e Alda, la sua fidanzata.

Alda: Orlando, Orlando, mio caro. Ho saputo il comando del re e tremo per questa missione. Ho un brutto presentimento. Ti prego, non andare; che sia un altro a comandare la retroguardia. Tu hai combattuto tante volte per il re; egli esaudirà questa richiesta se tu gliela chiedi.

Orlando: Oh, Alda… dolcissima fanciulla, amata più di ogni altro bene, desiderio e spasimo del mio cuore. Tu sai quante volte abbiamo sognato i giorni che dovremo passare insieme; quante promesse ci siamo fatte e quanto amore trabocca dai nostri cuori. Ma tu vorresti che il tuo Orlando, che non conosce viltà o rinuncia, cancellasse del tutto il suo onore per paura o per inseguire un sentimento d’amore che, anche se è forte e grande, non potrebbe mai lavare l’onta che gli arrecherebbe? Io sono un cavaliere e un paladino e ho prestato giuramento di fedeltà a Cristo e al mio Re. Come vuoi che possa venir meno a questo impegno?

Alda E con me non ti sei impegnato in un patto d’amore? Io voglio un uomo vivo, non un eroe morto. Tu mi parli di fedeltà, di onore, di fede. Ma queste parole esigono prezzi alti e crudeli, vogliono dolore e morte. No, Orlando. Io ti parlo solo d’amore, senza chiederti nulla che non sia possibile ad ogni uomo. La pace, Orlando, la felicità di una famiglia e di un sentimento buono e semplice, come quello che io ti porto. L’onore è una parola vuota che voi uomini riempite del vostro orgoglio e della vostra arroganza.

Orlando Alda, non mi tentare! Cos’è l’uomo senza fede e senza onore? Tu lo sai: la mia scelta è giusta, il mio sangue è puro, la mia fede è piena!

Il volto di Orlando si illumina. Una forte luce esplode nella scena e per un momento non si vede più nulla. La musica si alza fino al calare del sipario.





























SECONDO TEMPO



















Prologo

Menestrello: È l’alba del 15 di agosto
dell’anno del Signore 778.
Un’alba luminosa e calda che tinge
di gioia le cime dei monti
e scaccia con la sua aurora
le ultime ombre della notte.

Orlando, con i dodici Pari di Francia,
gl’invincibili paladini,
e le truppe scelte degli scariti,
soldati esperti e prodi
è accampato nel passo di Roncisvalle,
in attesa di Marsilio.

Sulle cime del valico
dietro ogni roccia e albero
si nascondono i pagani.
Tutti attendono con ansia
che il sole si alzi
e illumini il campo di battaglia.




Scena I

Una tenue luce rischiara la scena. Entra la Morte. Parla lentamente.

Morte: È il mio giorno! Entrate nel mio santuario! Vi mostrerò il mio trionfo, la mia gloria di tenebra. Chi di voi che ascolta le grida e il pianto degli eroi potrà mai giudicare un bene l’aver combattuto per un sogno? È forse un sogno di Dio questo voler battezzare tutti a una fede? O è un sogno degli uomini che servendosi di Dio vogliono soggiogare popoli e terre per fame di ricchezze e di potere?
Entrate nel mio santuario e vedrete il fratello che uccide il fratello, il sangue del cristiano e del saraceno che si mischiano nel fango della terra, rosso l’uno e rosso l’altro, e chiedono pietà e invocano le madri e piangono come figli abbandonati. Oh, la guerra! Atroce illusione!
(La Morte esce di scena)




Scena II
Orlando e Olivieri

(Una tenue luce rischiara il passo di Roncisvalle, La luce a poco a poco si farà più intensa. Orlando entra e si rivolge a Oliviero che ha fatto la sentinella per tutta la notte.)


Orlando: Oliviero, è già l’alba e vedo un luccicare di metalli oltre quei massi.

Oliviero: Sono le armature dei nemici che luccicano ai primi raggi. Guarda, anche da quest’altra parte e da questa e poi più in là, dietro gli alberi. Per tutta la notte si è sentito un rumore d’armi e di metalli. Saranno moltissimi e non sono certo qui per essere battezzati. Siamo stati traditi! Orlando, suona l’Olifante e fai accorrere l’esercito di Carlo.

Orlando: Non ti riconosco più, cognato. Hai forse paura di combattere? Non sei stato accanto a me in tutte le battaglie che abbiamo vinto? La mia Durlindana saprà rendere giustizia di questo tradimento. Noi abbiamo ragione e loro hanno torto! Ecco arrivano, combatti per la gloria di Cristo e del nostro Re.









Scena III
Orlando, Oliviero e due saraceni
(Entrano due saraceni e i quattro combattono, due per parte. Nel fondale bianco potranno scorrere le immagini di film di guerra)

Orlando: A me vile pagano. Difenditi dalla mia spada!

1° Saraceno: Non basta una spada per difenderti dalla mia ira. Ti ucciderò, nel nome di Macone, il mio Dio.

Oliviero: Ti hanno forse detto che i cristiani sono dei codardi? Vieni avanti, faccia di oliva fradicia; ti passerò da parte a parte come un pollo.

2° Saraceno: Prega il tuo falso Dio, cristiano! Io ti darò la morte e ti taglierò pure la lingua.
Dopo aspro combattimento muoiono i due saraceni



Scena IV
Orlando, Oliviero e altri due saraceni

Entrano altri due saraceni che dopo un violento scontro sono abbattuti anch’essi.

1° Saraceno: A chi dovrò tagliare la testa, o vili cristiani? Per Macone
e per Marsilio! A noi!

Orlando: A me, sbruffone! Eccoti un colpo della mia spada! Muori! (Orlando uccide il saraceno)

Oliviero: (sta combattendo con l’altro saraceno) Canta la mia spada Altachiara nella battaglia come usignolo nella foresta. Canta ed è voce di morte che s’abbatte sui vostri corpi, infedeli e sbruffoni, canta e cerca giustizia. Difenditi, e muori! (Olivieri uccide il secondo saraceno)




Scena V
Astolfo, Orlando e Oliviero. Poi un gigante saraceno.

Entra Astolfo e si unisce ai paladini. Entra un gigante saraceno e combatte contro Astolfo. Duro e violento è il cozzare degli scudi e delle spade ma Astolfo avrà la meglio. Durante i duelli devono sentirsi grida e invettive, parole di sfida e di sarcasmo.

Astolfo: Ecco un gigante africano. Lasciatelo a me.

Gigante: (Ride e sbruffa). Mi fai ridere, verme. Questa sera mi sazierò con le tue carni. (Astolfo uccide il gigante).

(Astolfo e il gigante combattono valorosamente. Astolfo avrà la meglio. I combattimenti potranno protrarsi a volontà. Quando si riterrà di avere combattuto a sufficienza e sul terreno saranno rimasti i corpi dei pagani, Orlando parlerà)

Orlando: Basta così! Il primo assalto è stato respinto! Ora provvedete a portare via i corpi di questi vili adoratori di Macone. Questo è il prezzo della falsità e dell’arroganza! Prepariamoci a un altro assalto. Tu, Astolfo, copri il lato sinistro e tu Olivieri guarda la parte destra.

(Escono tutti e i corpi dei saraceni caduti saranno trascinati via. La scena si oscura e si illumina la sala dove è ubicato il menestrello).














Menestrello:
O Morte! Questi corpi ti appartengono!
Tu non conosci differenze
di pelle, di fede, di terra.
Non conosci il tempo e lo spazio
che separano le storie degli uomini
perché una è la storia e uno il destino.






Scena VI
Orlando, Olivieri

Entrano Orlando e Oliviero. È il secondo assalto.

Oliviero: Orlando, tutta la vallata brulica di soldati e di cavalieri pagani; non possiamo resistere da soli! Suona il corno se non vuoi che moriamo inutilmente.

Orlando: Cosa dici in quest’ora suprema di gloria e di esaltazione? A un cavaliere non fa paura la morte perché gli è stata compagna per troppo tempo e la riconosce come amica. Te l’ho detto: noi abbiamo ragione, Oliviero, perché Dio è con noi.
(Si sente un frastuono lontano che aumenta sempre di più. E’ un rumore di metalli, di voci e di grida, di calpestìo di cavalli e di piedi. Succede l’urto con i paladini Orlando e Oliviero. Durante i duelli utilizzare luci a intermittenza per rendere più veloce il ritmo)


Scena VII
Detti, Aelrotte, Falsarone e altri saraceni

Aelrotte: Orlando, incrocia la tua spada con la mia! Io sono Aelrotte, nipote di Marsilio e il più valoroso dei suoi guerrieri. Ti ucciderò come un cane; taglierò la tua testa e la porterò in omaggio al mio re. Tutti devono sapere del valore di Aelrotte e tutti tremeranno nel vedermi, da oggi in poi.
Orlando: Sei solo uno sbruffone, vile pagano! Prendi questo fendente, e vedrai com’è pesante e dura la mano di Orlando, come la sua Durlindana che ti spaccherà in due!

Il combattimento fra i due è duro e violento. Alla fine Orlando uccide Aelrotte. Intanto Falsarone sta combattendo con Oliviero.

Falsarone: Vile d’un cristiano. Sappi che stai incrociando la tua spada con Falsarone, fratello di Marsilio e signore di molte terre moresche, da tutti conosciuto per il suo valore. Sarà questo il tuo ultimo giorno terreno. Prega quel tuo Dio per il quale stai combattendo e vedremo se ti salverà dalla morte.

(Falsarone ferisce Oliviero ma questi con un colpo di spada farà saltare la testa al saraceno).

Oliviero: Così finiscono i nemici di Cristo e del grande Carlo!


Si susseguono altri duelli che vedono sempre vincitori i cristiani Orlando esce di scena mentre entrano di volta in volta i cristiani e i pagani, i primi da destra e i secondi da sinistra. I duelli saranno intensi e veloci. Sul campo resteranno diversi corpi di cristiani e di saraceni. Rientrano Orlando, Oliviero, e il vescovo Turpino.



Scena VIII
Orlando, Oliviero e il vescovo Turpino)

Turpino: Orlando, siamo tutti allo stremo delle forze. Molti dei nostri uomini sono caduti e sono rimasti solo sessanta cavalieri contro un esercito ancora forte e numeroso. Non possiamo farcela. Hanno già attraversato metà del passo e scendono pure dalle alture e dalle grotte; vengono da tutte le parti. Suonate il corno, conte Orlando, finché siamo in tempo.

Oliviero: Illuso che siete, vescovo Turpino! Ma lo immaginate il più grande paladino di Francia che implora aiuto perché non è riuscito a sconfiggere il nemico? Cosa diranno il Re e tutti i principi di Francia? L’invincibile Orlando ha chiesto aiuto come un bambino? Questo diranno! Il nostro Orlando è troppo fiero e non vuole ammettere la sconfitta. Questa è l’ora della gloria e dell’esaltazione! Non è vero, Orlando?
Questa è invece stoltezza e non coraggio! Non senti la stanchezza e la fatica che induriscono i tuoi muscoli? Sei proprio sicuro che Dio voglia la nostra morte, sei proprio sicuro che noi abbiamo ragione?

Orlando: (con fare ieratico e solenne, rivolgendosi a Dio). O Dio degli eserciti e degli eroi. Perdona la debolezza della nostra carne. Siamo ridotti allo stremo e non potremmo più sostenere un altro urto. Suonerò Olifante e chiamerò Carlo in aiuto. Olifante, fai sentire la tua potente voce! Valica le montagne e le vallate, oltrepassa i fiumi e i boschi, corri veloce di fratta in fratta, con le ali del suono che chiama a soccorso. Il mio Re ascolterà e capirà. (Suona con fatica). Come è cupo questo suono! Un lamento di lupo che ulula nella notte. Datemi, o Santi del Paradiso, la forza di soffiare un vento maestoso in questo corno, come il maestrale che sferza gli alberi nel freddo dell’inverno. (Suona di nuovo e si sente un suono più forte). Raccoglietevi tutti attorno a me, paladini, facciamo quadrato per resistere all’urto. Verrà Carlo, l’esercito starà già muovendosi verso di noi. Olifante, affidiamo a te la nostra salvezza
(Suona per la terza volta ancora più forte, poi si rivolge al vescovo Turpino)

Orlando: Turpino, benedici le nostre anime, perché il tempo della nostra fine è vicino. Prega il Dio degli eserciti di farci entrare nelle sue schiere come soldati e come santi.

Turpino: Iddio sa di questo sacrificio e non abbandona mai le sue creature. Tuttavia sia benedetto questo suolo di martirio e siate benedetti anche voi, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Si sentono a questo punto grida e frastuono di lamiere. Entrano i pagani e succede uno scontro intenso. Cadranno molti corpi, finché dopo lungo combattimento resterà solo Orlando, morente. Si trascina verso un grande masso alla base del quale è disteso Oliviero, morto. Orlando lentamente si avvicina e solleva da terra l’amico.




Scena IX
Orlando

Orlando: Oliviero… Oliviero! Perché non sento più la tua voce amica? Ahhh, morte, vieni anche per me, ora che la gloria di Francia è stata spenta per sempre! Alda, amore mio sfortunato che in un giorno solo perdesti fratello e amante, fanciulla di dolore, piangerai per sempre questo triste momento. Oliviero, avevi ragione tu. Avrei dovuto suonare molto prima il corno. Ora non c’è più tempo e il nostro Re troverà solo una montagna di corpi. Stolto! Pazzo che sono stato! Ho voluto io questo lauto banchetto per la morte.

Si adagia sopra la roccia, sotto un pino, con il viso verso la Spagna. Tiene la spada in una mano e nell’altra il guanto.

Orlando: Durlindana, qui finisce la nostra sacra inchiesta, la strada è giunta alla meta che Dio ci ha assegnato. Abbiamo combattuto in molte terre e abbiamo glorificato sempre l’onore dei cavalieri. Dio e il Re, questo il nostro motto, la bandiera che ci ha guidati.
Ora, mia spada santa e bella, tu che nel tuo pomo dorato racchiudi quattro reliquie, un dente di San Pietro, il sangue di San Basilio, i capelli di San Dionigi, un lembo della veste di Maria, a te ora chiedo l’ultimo favore: spezzati, o Durlindana, affinché nessuno più ti impugni e ti alzi nell’aria come uno scettro regale. (Batte la spada nella roccia ma non si spezza). Oh, Durlindana! Tu non ti spezzi perché fosti forgiata nel fuoco dei vulcani, col metallo più duro che la terra abbia mai partorito. Ti nasconderò sotto il mio corpo affinché Carlo possa trovarci insieme e insieme seppellirci.
Dio, tu che mi guardi dal trono più alto, concedimi il tuo perdono. Tu, signore potente e vero, che hai mandato il tuo unico Figlio per indicarci la via della giustizia e della misericordia, guarda ora verso quest’altro tuo figlio che muore pronunciando il tuo nome. O padre vero, che giammai mentisci, tu che resuscitasti Lazzaro da morte e Daniele salvasti dai leoni, salva l’anima mia da tutti i pericoli per i peccati che in vita mia commisi. (Alza il guanto) Ecco, o Padre buono, ecco il mio guanto, segno del mio stato e del mio onore. Sia lode a te! (Si accascia e muore).





Scena X
La Morte, i tre Angeli (pupi)

Entra la Morte e raccoglie alcuni corpi e li porta fuori. Quando sta per prendere il corpo di Orlando una luce intensa avvolgerà quel corpo. La Morte si scosta e si vedranno tre angeli: uno raccoglierà il guanto e gli altri due raccoglieranno lentamente il corpo esanime di Orlando. Lo portano verso il proscenio e lo alzano al cielo per far capire che quel corpo santo ascende in paradiso. Si sentirà un forte frastuono come di terremoto; lampi e tuoni squarceranno la terra e una lingua di fuoco si alzerà dal fondale. Sulla scena resteranno molti altri corpi. Torna il sereno e si vedrà un sole pallido. È sera.
Tutta questa scena è pensata per l’ingresso di attori-bambini (gli angeli); tuttavia, se si vuole fare con i pupi bisogna trovare gli accorgimenti giusti per far librare in aria il corpo di Orlando.



Epilogo

Menestrello:
Si consuma il giorno, lentamente;
si spengono i bagliori delle armi
tace il suono delle spade
s’avanza l’ombra della sera
per nascondere fiumi di sangue
che scorrono di pietra in pietra.

Chi avrà pietà di questi corpi
disfatti dalla morte, chi ne comporrà
le membra e poserà sui fossi una croce
e reciterà pietoso una preghiera?
Verrà presto Carlo e ascolteremo
il suo lamento di padre disperato.

O sole, mano pietosa di Dio, non calare
senza che questi miseri
abbiano potuto avere sepoltura.
Fermati ancora un poco, o sole d’oro,
fermati e aspetta che nel grembo della terra
scendano i corpi di questi eroi sventurati.

(Il sipario si chiude lentamente. A questo punto dovrà scendere un telo bianco su cui saranno proiettate immagini di guerra e di terrore, accompagnate da una musica sacra – un canto gregoriano o qualcosa di simile – mentre il Menestrello continua il suo monologo.)

Ora tutto è compiuto! Scenda
la tua mano di misericordia
su Roncisvalle,
Dio di cristiani e musulmani!
Perché tutto è stato compiuto
invocando i tuoi santi nomi!

Scenda, o Altissimo, il tuo perdono
sulla follia degli uomini
che per stupida gloria
o sete di potere o illusa chimera
in ogni tempo e in ogni luogo
impugnano le armi.

Si spegneranno tutte le luci
FINE

Tramuntu














Mpronti



Sirinannu lu suli si ni scinni
e lu mari si rapi la pittèra.
Appuiatu a la panza ri na varca
scurdatu nta lu disertu ri la praja
vintu lu cori miu si sdillassa.
Àipi li me pinzieri, s’assicutanu.

Fra stu munnu e la Casa ri Ddiu
c’è forsi lu Pararisu
ccu ciumi ri latti e ri meli,
ccu musichi r'ancili e ri santi.
O forsi c'è m-palluni ri stiddi
ca si ùncia finu all'urtimu bottu.

Ma l’uòmminu è cca, spraiatu
comu tavula purtata ri l'unna,
abbannunatu a lu suli, a lu vientu,
a li martiri ri li jorna
ca s’ancravàccanu
comu nta n-jocu ri carusi.
Cca è l’uòmminu, astronauta spersu
ca cerca la terra prumissa!

Caminu, e supra la rina
li stampi ri li me pirati
s’ìnchiunu ri rragni e ri furmiculi:
tuttu l'universu r’iddi è nta ss'urma!

Ma iu, iu ca nun sugnu furmicula
vuògghiu nèsciri
r’ogni mpronta ri cielu,
vuògghiu scappari ri la riti calata
nta la tunnara ri la menti,
vuògghiu mpastari ccu li manu miei
la terra ca mi runi, o Patri.
Lu geniu miu grida
ri lu carciri ri la lampada.








Tramuntu:
lu suli astuta llustrura ri mari
chiuri pampini e occhi ri ucieddi
stenni ùmmiri e veli ri negghi,
senza tiempu lu tiempu si ncanta
e nta la gloria ri lu santu vèspiru
si cunnuci tuttu lu criatu.
Oh, majaria ri la natura!
Ri ogni nascita e ri ogni morti
mi sientu ngravidatu.

Miu Diu!
Tra lu possibbili e l'impossibbili
c'è sulu la mpronta ri lu to peri
unni uòmmini e furmiculi passìanu.






Impronte. Serenando il sole se ne scende / e il mare s'apre il petto./ Appoggiato alla pancia di una barca / scordato nel deserto della spiaggia / vinto il mio cuore si rilassa. / Gabbiani i miei pensieri, s’inseguono.
Fra questo mondo e la Casa di Dio / forse c'è il Paradiso / con fiumi di latte e di miele / con musiche d'angeli e di santi. / O forse c'è un pallone di stelle / che si gonfia fino all'ultimo botto.
Ma l'uomo è qui, lasciato sulla spiaggia / come un legno portato dall'onda / abbandonato al sole, al vento, / ai martìri dei giorni / che s'accavallano / come in un gioco di ragazzi. / L’uomo è qui, astronauta sperduto / in cerca della terra promessa!
Cammino, e sopra la sabbia / le orme delle mie pedate / si riempiono di ragni e di formiche: / tutto il loro universo è chiuso in quell'orma!
Ma io, io che non sono formica / voglio uscire / da ogni impronta di cielo, / voglio fuggire da ogni rete calata / nella tonnara della mente, / voglio impastare con le mie mani / la terra che mi dài, o Padre. / Il mio genio grida / dal carcere della lampada.
Tramonto: / il sole spegne il luccichìo del mare / chiude foglie e occhi d'uccelli / stende ombre e veli di nebbie, / senza tempo il tempo si ferma / e nella gloria del santo vespero / si riconduce tutto il creato. / Magia della natura! / Di ogni nascita e di ogni morte / mi sento ingravidato.
Mio Dio! / Tra il possibile e l'impossibile / c'è solo l'impronta del tuo piede / dove uomini e formiche passeggiano.