domenica 24 febbraio 2008

Canto d'Alfeo



Quest'opera nasce da una vecchia discussione con Vittorio Lucca. E gli, cultore di storia e tradizioni siracusane, non appariva molto soddisfatto né della lezione mitologica ovidiana su Aretusa, né del linguaggio, che riteneva ormai lontano dal gusto moderno. Chiacchierando mi invitò a una ripresentazione del mito, in qualche modo più vicina al nostro modo di sentire.
Per alcuni anni non pensai più alla sua richiesta; capivo che l'impresa di toccare un mito così consolidato era ardua e impopolare e forse non interessava nessuno; avevo fatto, invero, qualche tentativo malriuscito, in versi italiani, e quindi avevo lasciato cadere la cosa.
Un giorno però ricevetti da un mio amico poeta un libretto in siciliano: si trattava di un lungo racconto poetico su un personaggio tipico. Lessi il primo verso e fu come un'illuminazione: era nato il Canto d'Alfeo.
Tutto il resto avvenne tra me e il computer. Fu una stesura forsennata, conclusa in poche notti, guidata dallo schermo che mi suggerì la forma dell'ottava e del verso singolo di aggancio fra due strofe. Era ed è lontanissima da me quella forma, che rimane ancorata alla poesia popolare, mentre mi è più congeniale il verso libero e polimetrico; ma a volte i poeti sono strumenti nelle mani della Musa!
L'unica libertà formale che mi son presa è quella di non legarmi alla rima e di essermi lasciato andare invece a un gioco di assonanze, consonanze e solo qualche volta anche di rime, così come mi conducevano il suono e il ritmo, evitando fin quando mi è stato possibile i suoni striduli e duri.
E poi il siciliano! Lingua dal fascino incommensurabile e dalle infinite possibilità espressive. La lingua stessa proiettava tutta la vicenda in un tempo senza tempo, all'inizio della storia umana, nel tempo dei miti e degli eroi fondatori di città. E' la lingua dei miei padri e dei miei nonni, le parole di questa terra generatrice di miti e di storia, i suoi gravi e armoniosi accenti
Ma era destino che nulla dovesse rimanere del vecchio mito classico.
In quello Aretusa è una ninfa che va al seguito di Diana, dea della caccia; durante una battuta la ninfa cerca un po' di refrigerio in un bagno nelle acque del fiume Alfeo. Questi s'innamora della bella Aretusa e cerca di possederla. La ninfa chiede aiuto a Diana che la trasforma in fonte in un luogo della Sicilia dove poi sorgerà la città di Siracusa; ma Alfeo non desiste e, riprese le sembianze di fiume, valica mare e terre fino a congiungersi con l'amata.
In quest'operetta invece Aretusa è essa stessa una divinità della terra e della natura, simbolo non più della caccia e della violenza ma della vita e del creato. Alfeo è il cacciatore, ovvero colui che procura la morte e rompe ogni equilibrio prestabilito (vedi l'episodio della cerva).
Quindi Aretusa è un simbolo d'amore e di creazione mentre Alfeo è un simbolo di violenza e di morte. Si sono invertite le parti rispetto al vecchio mito classico.
Ma l'amore vince tutto e trasforma anche la frigidità iniziale della ninfa. Nel congiungimento di entrambi ci sono la vita e la storia dell'uomo, che a me piace ricondurre in quest'angolo del mondo, a Siracusa, dove sono nati gran parte dei miti di fecondità, di fertilità, d'amore e di vita, ai quali per tanto tempo abbiamo legato la nostra cultura.
Corrado Di Pietro

Nessun commento: