domenica 24 febbraio 2008

Tra Terra e Celu



Corrado Di Pietro dice di poetare per accidens in siciliano, tacitamente convinto della crociana indifferenza verso l’uno o l’altro strumento linguistico, l’italiano o il milanese, il romanesco o il napoletano, oppure, perché no?, l’inglese o il tedesco. Chiarisce che il suo siciliano è "moderno”, quello parlato da lui e dai giovani di oggi, rifuggente dagli arcaismi, nient’affatto nostalgico; e che egli non intende far “poesia popolare o popolareggiante”, ancora meno “sboccata, taverniera, bozzettistica, arcadica”. Confida di essere innamoratissimo dell’oggi, di cui si compiace di essere figlio, pur professandosi della scuola dello zio Salvatore Di Pietro, uno dei maggiori poeti di Sicilia da Giovanni Meli in poi, e di muoversi tra le classiche cadenze ritmiche di Quasimodo e la calda musicalità evocativa di Garcia Lorca. Insomma, Corrado Di Pietro è un poeta “colto”. C’è in lui l’intellettuale che concettualizza, da “geometra” che lavora presso l’Ufficio Tecnico Erariale di Siracusa, felicemente sposato, padre di due figli, Daniele e Giampaolo. Di tutto ciò il poeta in lui tiene conto fino a un certo punto. Per il resto, invece va per la propria strada, giocandosi l’intellettuale concettualizzante fino a costituirne un segno di contraddizione.
Parafrasando Engels, potremmo dire che la poesia qui si attua per lo più “a dispetto delle idee dell’autore”, sfuggendo alle “intenzioni” e alle definizioni, e attingendo a una realtà diversa da quella programmata e a una verità più intima. Così Di Pietro può confessare che «La megghiu puisia... è comu ‘n amuri / c’addevi nta la menti, / ‘n amuri ca si fa spusa / nta li notti senza sonnu e senza uri». Qui scherzando si può dire che la signora Di Pietro abbia ragione di essere gelosa e di compatire nel marito il poeta che ha quella seconda sposa nelle notti senza sonno e senza ore della «puisia... ca nun si scrivi». Ma quando quella «puisia... chiusa nta lu cori» si apre e sboccia nei versi del mondo, come di fatto accade (altrimenti non sapremmo neppure della sua esistenza), non viene alla luce accidentalmente o indifferentemente in siciliano o in altro idioma. Il verbum cordis o mentis si è fatto carne e verso (verso-solco, giusta l’etimologia) a Pachino, in un luogo e in un tempo che è parte di un destino interiore, anche se non rientra nella geometria e nella cronologia comune.
Ora se ci lasciamo guidare dalla preoccupazione concettuale e definitoria dell’autore, siamo costretti a sostare più del necessario su composizioni come La petra, Manichini, Lu compiutiri, Quartieri “Basalata” e via procedendo dietro il carro della morte che fungerebbe da “chiave di lettura”. Se però seguiamo il poeta, avvertiamo subito un’apertura alla vita e alla bellezza che ci persuadono di essere senz’altro sulla strada giusta. Col poeta si parte dai Pampini, tra un «tem- pu dispittusu» e «lu jocu di li carusi», ed eccoci alla prima stazione dolorosa del «nespulu» che muore e «pari Cristu», un Cristo-albero, natura, cosmo; e si ha già la nudità dell’anima del poeta, nudo-fanciullo che richiama la Ninna-nanna. A questo punto ci si può concedere il sonno della giustizia poetica, per quanto turbata dagli incubi di «La Morti / vistuta di Cannaluvari», di Canni al vento, di Ecce Homu, Pirdunu, Lamentu, fino a ridestarsi coll’Alba davanti al prodigio di una vela che «diventa ala di farfalla, / tra lu mari e lu celu» mentre poi «svampa la braci di lu suli» che «spogghia la terra e brucia / ssa vistina niura di la notti». L’uomo ora si può prendere «na carizza d’amuri»,anche se continua a dormire, tanto «lu jaddu» si accontenta di dare «lu bongiornu sulu a li jaddini». Dopo di che, il poeta sale alla vetta che è «Matri», dove la «puisia», anche quella che gli stava chiusa nelle più intime profondità del cuore, sgorga limpida alla luce «di li jorna», del sole e della luna, del gioco e del pianto; e lui può finalmente, benedetto coll’«impronta d’amuri» della madre, avviarsi per il mondo, come il seminatore evangelico, conscio delle « trappuli di morti», del vento e della terra aspra cui sparpaglia la semenza del proprio canto, con la fiducia che almeno una spiga germoglierà, quella d’amore della madre. Con questo commiato, al quale forse lo stesso Quasimodo avrebbe invidiato qualcosa, il poeta ci lascia liberi di giudicare.

Fortunato Pasqualino

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