martedì 18 marzo 2008

TRADIZIONI POPOLARI



I MESTIERI ANTICHI IN SICILIA
(Articolo pubblicato su "Ethnos - Quaderni di Etnologia" del 2004)




Il novecento, quel secolo ventesimo dell’era cristiana che abbiamo appena lasciato, è da considerarsi, nella storia della civiltà occidentale, come un tempo di passaggio, in cui sono avvenute, più o meno rapidamente, grandi trasformazioni, sia nell’organizzazione politica ed economica delle società sia nell’organizzazione del lavoro. In entrambi i casi è stato un secolo cerniera: uno snodo fra un modo vecchio di concepire il mondo e di interpretarlo e un modo tutto nuovo, frutto di conquiste sociali e tecnologiche.
Nel novecento hanno avuto luogo le attualizzazioni politiche lasciateci in eredità dal secolo precedente (mi riferisco ai sistemi nazisti e fascisti, ai regimi comunisti e totalitari, guardo anche alle repubbliche democratiche e ai vari modi di attuazione del liberalismo); e nel novecento si è protratto anche, e per buona parte del secolo, un’organizzazione del lavoro che, nelle architetture principali del mondo agro-pastorale, rispecchiava quella medievale e feudale. Io mi limiterò a trattare, per sommi capi, questa seconda parte del discorso, cioè l’organizzazione del lavoro materiale, soprattutto artigiano, in Sicilia, mettendo in evidenza l’aspetto popolare, antropologico ed etnografico dei mestieri che quotidianamente vivificavano la vita dei nostri paesi.
L’onda lunga dei modelli artigianali che ci viene dai secoli passati arriva fino agli anni sessanta, cioè fino all’avvento dell’industrializzazione, la quale introduce mestieri nuovi, sopprimendo e trasformando gran parte di quelli vecchi. Successivamente, negli anni ottanta e novanta arriva anche il computer e allora quel residuo tradizionale di gesti e di segni dell’antico lavoro artigianale scompare del tutto o diventa cimelio da ammirare in un museo o richiamo turistico da inserire in un discorso di businiss.
Fatta questa doverosa temporalizzazione vediamo ora di inquadrare meglio gli ambienti del lavoro manuale.
Gli ambiti lavorativi sono sostanzialmente quattro: il paese, la campagna, la miniera, il mare.


I mestieri nel paese
Uno sguardo panoramico sulla situazione etnologica siciliana (usi, costumi, tradizioni, feste, canti, proverbi, oggetti del lavoro manuale, manufatti d’arte e di artigianato, ecc.) ci consente di vedere una dimensione culturale abbastanza omogenea in tutta l’Isola, quasi del tutto inalterata negli ultimi due secoli, sia nell’espressione orale sia in quella materiale.
Il senso antropologico e simbolico di alcune feste come la Pasqua, il Natale, il Carnevale, o di alcune pratiche magiche, come la fattura, il malocchio, il ciràvolo, presenta gli stessi connotati in tutti i paesi di Sicilia; cambiano le forme di rappresentazione rituale, cambiano parole e gesti, cambiano gli oggetti utilizzati ma il senso intimo e profondo del rito o di una determinata tradizione resta sempre lo stesso. Per esempio, la profonda partecipazione alla passione di Cristo nella settimana santa assume la stessa intensità emotiva, morale e religiosa in tutte le città siciliane anche se i riti della Pasqua sono diversi di paese in paese.
Così è anche per la cultura orale e per quella materiale. Sostanzialmente i canti di lavoro che accompagnano la vendemmia o la mietitura o la mattanza dei tonni presentano gli stessi stilemi e gli stessi contenuti sia che si ascolti un canto di mietitura della pianura catanese o della collina ennese; le allegre canzoni che si ascoltavano a sera dopo il lungo e faticoso lavoro di raccolta dell’uva presentano gli stessi caratteri di briosa danza e di civettuolo contrasto sia che si vendemmi a Pachino, nelle terre d’oriente della Sicilia, o ad Alcamo, in quelle d’occidente; la cadenzata e criptica cialoma di Favignana ha gli stessi ritmi di quella di Capo Passero e serve dappertutto a dare il tempo ai gesti dei marinai che devono tirare le reti cariche di tonni.
Questo stesso discorso si può fare per gli antichi mestieri: la fucina buia, polverosa e affumicata del fabbro aveva quasi le stesse caratteristiche sia a Buccheri che ad Avola, così come l’odore del legno piallato era lo stesso a Lentini e a Noto, per restare in provincia di Siracusa. Da queste botteghe uscivano gli stessi utensili, gli stessi attrezzi, gli stessi manufatti da servire in casa o nei campi. Quindi omogeneità sostanziale di prodotti e di forme nella cultura materiale, stesse linee e stessi disegni, almeno per la maggior quantità di manufatti, perché avveniva non di rado che il genio creativo di qualche bravo artigiano cercasse di esprimere la propria arte in originali disegni, incisioni, ricami, come si vedono nelle bardature delle bestie o nelle trine dei vestiti.
C’è qui da dire che se la forma dell’oggetto, il suo uso e la sua funzione sono sempre gli stessi dappertutto, questi stessi oggetti possono essere personalizzati e resi veramente degni di figurare in un museo d’arte. L’arte della ceramica aveva sicuramente due livelli funzionali: quello diremo usuale, consumistico, del vasellame, delle brocche, dei piatti appena cotti e sfornati da vendersi per le strade, nelle fiere e nelle poche botteghe di regali, e quello artistico degli oggetti smaltati, disegnati e colorati, arricchiti da sculture o bassorilievi, finemente trattati nella costruzione e nella cottura; questi ultimi hanno rappresentato la nobile tradizione della ceramica siciliana oggi nota in tutto il mondo (Caltagirone, Santo Stefano di Camastra, Sciacca, ecc). A corredo di questo artigianato è sorto uno dei mestieri più caratteristici e curiosi: quello dell’acconcia brocche o meglio del conzalemmi.
Io risento ancora il grido di richiamo del conzalemmi che passava per le strade: le donne uscivano dalle case, chi con un piatto rotto, chi con una quartana (brocca), chi con un boccale, per farseli incollare. E il conzalemmi incollava i cocci, con i punti di fil di ferro e con il mastice, e venivano come nuovi quegli oggetti preziosi per la vita quotidiana. Figura tipica e curiosa, quella del conzalemmi, se anche Pirandello sentì il bisogno d’immortalarla in una spassosa e stupenda commedia: La giara!
E chi, per fare un altro esempio, non ricorda l’ammola fòrbici e cuteddha (l’arrotino) che si fermava all’angolo della strada con la bicicletta (dopo vennero anche le lambrette) sul retro della quale c’era la mola ad acqua; e chi potrà mai dimenticare l’ombrellaio il quale camminava bardato di asticciuole e di pinze, di tessuto nero impermeabilizzato, di manici: quest’uomo era provvidenziale perché aggiustava gli ombrelli e soprattutto i grandi paracqua sotto i quali si riparava il carrettiere nei suoi lunghi viaggi sopra il carretto.
Gli zingari detenevano di certo il monopolio di questi mestieri ambulanti. Oltre ai tre citati ricordo anche il capellaio o cambia capelli: ho ancora negli occhi il gesto discreto delle nostre donne che, dopo la pettinatura o dopo il taglio, raccoglievano da terra i capelli sparsi e ne facevano un gomitolo per darlo poi in cambio di un pettine d’osso (u pettini strittu); del resto i capelli non potevano essere buttati nella spazzatura per timore che qualcuno li prendesse e ne facesse oggetto di un rito di fattura. E a casa per pettinare i lunghi capelli o per lavarli ed acconciarli in occasioni di feste e sposalizi si chiamava a pilucchera (la odierna parrucchiera) e ci si serviva dei pettini di legno o d’osso realizzati rô mastru pittinaru. Gli zingari leggevano la ventura per le strade: generalmente era una donna o un ragazzo che portava a tracolla una cassettina piena di bustine di diverso colore; sopra la cassettina c’era un pappagallo dentro una piccola gabbia: la zingara sollevava di poco lo sportellino e il becco del pappagallo afferrava una bustina e la consegnava alla padrona; questa apriva il foglietto e leggeva la ventura (il destino). Si trattava naturalmente di giudizi preconfezionati, buoni per ogni occasione, ma vi assicuro che la cosa funzionava bene e non erano pochi quelli che si facevano consegnare la bustina. Del resto oggi non si fa così anche con gli oroscopi?
Le strade dei nostri paesi erano dei mercati: passavano carretti carichi di ogni mercanzia: vasellame, pentole in alluminio, ombrelli, tessuti e vestiti, recipienti per liquidi e solidi, generalmente di latta, sedie impagliate o con piano in compensato; tutto quello insomma che si poteva vendere era venduto così come avveniva al tempo degli antichi romani e poi nel medioevo e poi nell’ottocento e nel novecento, non trascurando il fatto che anche oggi quest’usanza è ancora molto frequente, soprattutto con l’avvento degli extracomunitari.


I mestieri dentro le botteghe
Ma i mestieri più remunerativi e professionali si svolgevano nelle botteghe: falegnami, fabbri ferrai, stagnini, calzolai, mastri carradori e bottai, sarti, barbieri, orefici, tessitrici, putiari, macellai. Non c’erano nei paesi i negozi che ci sono ora: quei pochi vestiti che si confezionavano (in occasione della festa del Santo Patrono) venivano cuciti dal sarto, su misura; e così avveniva per le scarpe realizzate su misura anch’esse dal calzolaio; così pure si procedeva per tutti gli altri oggetti della casa, dal tavolo tondo al letto, dall’armadio alla tinozza, dalla coperta di ciniglia ai bei lenzuoli ricamati, dalla botte per il vino agli attrezzi del lavoro in terra o in mare.
Molti sono i mestieri e le forme dell’artigianato siciliano in questo periodo e forse non sarei capace di ricordarli tutti: ma su uno di questi mestieri voglio spendere una parola di più: il barbiere.
Ogni barbiere aveva un gruppo di clienti costanti, in abbonamento mensile o, come avveniva nei paesi montani della nostra provincia, ad anno, naturalmente dopo la raccolta del grano. I compensi potevano essere in natura o in denaro ma il baratto era la forma più naturale almeno fino agli anni cinquanta. Nella sala da barba avvenivano diverse cose: oltre al taglio dei capelli e alla rasatura del viso, non di rado si cauterizzavano (stagnavano) piccole ferite, si mettevano le sanguisughe (sanguette) per i salassi, si cavava qualche dente, si giocava a dama o a carte, si improvvisavano dei concertini con chitarre e fisarmoniche, si chiacchierava di politica, di donne, di gioco, di lavoro, di tutte le cose che s
uccedevano
in paese; era insomma una piazza in miniatura perché spesso si contrattava il lavoro o la vendita di un mulo o di un campo o si realizzavano amicizie e comparatici. Il profumo delle lavande e del borotalco ci accompagnava per tutto il giorno e i capelli impomatati e tirati a lucido sfidavano ogni capriccio di vento; e poi quel calendarietto profumatissimo di fine anno, con la cordicella colorata in mezzo e il giummo pendente, illustrato con donnine seminude, procaci e voluttuose, che mettevamo nel taschino della giacca quasi per nasconderlo dagli occhi indagatori delle nostre mogli o delle nostre madri!
La sala da barba era elegante, rispetto alle altre botteghe o agli altri luoghi di lavoro; piena di specchi, di mensole, di armadietti, di bottigliette, di saponi, di pettini e spazzole; due o tre poltrone larghe, di stile liberty, avvolgevano il cliente e lo sprofondavano quasi subito in un torpore onirico mentre il suono delle voci degli altri clienti si confondeva nella mente e si affievoliva fino a diventare un lieve ronzio.
Nella sala da barba ognuno aveva un titolo: cavaliere, commendatore, barone, massaro, don, mastru, oppure dottore, professore, ingegnere, ecc.; i signori erano pochi. Si andava ben vestiti o almeno puliti e ordinati e non come si veniva dalla campagna. Oggi le sale da barba hanno mantenuto qualche antico segno ma l’atmosfera non è più la stessa e la fretta che abbiamo non ci consente neanche qui di rilassarci.
Già la fretta! Soffermiamoci un momento su questo punto.
I nostri paesi venivano abbandonati ogni mattina da centinaia di braccianti e jurnatari che andavano a lavorare nei campi; molti giovani si chiudevano nelle aule scolastiche, altri prendevano la corriera per andare a lavorare o a studiare in altre città vicine. In paese restavano le donne, i bambini, i vecchi, gli artigiani e i professionisti, oltre ai religiosi. Su queste categorie di persone poggiava quasi tutta la vita del paese, da quella politica a quella civile; i tempi del fare quotidiano erano lenti, pensati, meditati, forse anche troppo, ma consentivano a tutti di stare dentro i ritmi sociali, anche ai ritardati mentali o agli handicappati. Le donne scendevano in strada per comprare le merci e per parlare fra di loro, i ragazzi giocavano liberamente nei cortili e nelle strade, i vecchi restavano seduti per tutta la giornata davanti l’uscio di casa fumando la pipa e salutando ora questo ora quel passante; i bottegai, gli artigiani, i professionisti discutevano anche animatamente con i loro clienti sul prezzo, sulla manifattura, su come intraprendere una causa o un progetto; si camminava quasi sempre a piedi e si era abituati ad aspettare dietro una porta per ore ed ore. Il tempo era veramente relativo, era un’entità astratta che si misurava più col sole che con l’orologio. Così anche i tempi di consegna dei manufatti erano lunghi e generalmente si stabilivano secondo il calendario delle feste religiose o di settimana in settimana. Anche i pagamenti, come abbiamo visto, avvenivano solo dopo la raccolta del grano, delle mandorle, del mosto, dei cereali. A questo proposito vi racconto come venivano contabilizzate le prestazioni nella bottega del fabbro, nei paesi collinari dell’entroterra siracusano.
Per la ferratura di un mulo si segnava una tacca in un’asticciuola di legno, ’a tagghia (la taglia), divisa longitudinalmente in due parti perfettamente combacianti; una si dava al cliente come ricevuta e l’altra, la matrice, la tratteneva il fabbro. A fine stagione si contavano le tacche segnate con numeri romani sulle due parti dell’asticciuola. Vi assicuro che non poteva esserci alcuna contraffazione o falsificazione perché le due parti dell’asticciuola in legno dovevano combaciare perfettamente.
Negli anni sessanta la tecnologia entra prepotentemente nelle botteghe e i processi produttivi si velocizzano, si semplificano, si affinano; diminuisce il bisogno di braccia lavorative e aumentano invece le richieste di operai specializzati.
Nelle falegnamerie entrano le piallatrici e le seghe elettriche, i fabbri conoscono le prime macchine per piegare il ferro e compaiono altri materiali come il ferro zincato e poi l’alluminio anodizzato, i sarti sono agevolati dalle macchine per cucire che li tolgono dalla schiavitù dell’ago, le lavatrici elettriche fanno scomparire quella tipica figura paesana della lavandaia che si vedeva tutti i giorni china su lenzuoli immersi in acqua e sapone di soda nei lavatoi pubblici o nei fiumi.
Il tempo si comincia a contare con l’orologio, si scandisce meglio e con più determinazione nel vissuto quotidiano e spesso condiziona gli stessi ritmi del lavoro.


I mestieri all’aperto
Molto spesso la bottega aveva un’appendice fuori di porta (come avviene anche oggi). Il falegname o il fabbro o il salumiere, il formaggiaio, il pescivendolo, il verduraio lavoravano anche fuori, sul marciapiedi o direttamente sulla strada; la cosa è ancora evidente nelle officine meccaniche o in quelle dei fabbri. Ma i veri mestieri all’aperto che si svolgevano in paese erano soprattutto due: il muratore e lo spazzino.
Il muratore era il più sofisticato artigiano che si potesse avere: sapeva costruire case, gebbie, pozzi, canali d’irrigazione, strade, ponti, piazze e spesso conosceva anche bene altri mestieri come quello del tubista, dell’elettricista, insomma era un professionista a tutto tondo. Di più bassa condizione ma non meno indispensabile era u scupastrati, (questo termine ha subito in italiano una curiosa evoluzione: spazzino, netturbino, operatore ecologico, segno di un significativo miglioramento del proprio status).
Nei primi decenni del secolo, prima dell’avvento della luce elettrica, si vedeva girare di notte anche u lampiunaru, l’addetto all’accensione e allo spegnimento dei lampioni che allora erano provvisti di lanterne ad olio.
Un’altra figura tipica era u vanniaturi, il banditore che veniva inviato dall’amministrazione comunale per comunicare qualcosa ai cittadini, oppure veniva assoldato da un negoziante per annunciare una campagna commerciale di sconti o veniva utilizzato in altre occasioni in cui si doveva dar voce a un fatto o a una notizia che riguardasse la collettività.
Un’altra figura particolarissima, curiosa e inquietante era quella del pircantaturi: il termine deriva da pircantari, stare immobile, quasi imbalsamato, di fronte a qualcuno. Chi aveva dato in prestito dei soldi e non se li vedeva restituiti dentro i termini pattuiti, assoldava u pircantaturi il quale si piazzava, immobile e senza dir niente, davanti l’uscio di casa del debitore e da lì non si muoveva fino a quando il debito non veniva saldato. Era una specie di denuncia, di accusa sociale; una denigrazione per il debitore e per la sua famiglia. C’era insomma da vergognarsi!
In molti paesi dell’entroterra siciliano, in zone collinari e montagnose, c’erano molte niviere: erano dei fossi grandi e profondi dove, in inverno, veniva depositata la neve; in estate molti venditori di neve, con i carretti pieni di ghiaccio conservato fra la paglia, scendevano nei paesi marini per vendere lastre di ghiaccio, così come altri venditori ambulanti inondavano le strade di questi paesi assolati e caldi, che per buona parte del giorno echeggiavano dei tipici richiami dei venditori di uova, di formaggi, di galline, di cetrata, di foglietti musicali (vi ricordate del pianino?), di scope di ampelodesmo, di pentole di stagno, di carrettini siciliani, tamburelli, bambole, ferri per lavorare a maglia, ecc.

I mestieri fuori dal paese
Pochi sono i mestieri che si svolgevano fuori dal paese: il contadino, il carrettiere, il pastore e il pescatore; nel centro della Sicilia c’era anche lo zolfataro.
Su ognuno di questi mestieri è fiorita una letteratura immensa né qui si ha la pretesa di approfondirne gli aspetti e presentarli nella loro molteplice funzione. Mi limiterò dunque a qualche accenno.

Il contadino
Il contadino è una figura quasi primordiale, ontologica del nostro stesso essere o della nostra natura. È il conoscitore profondo dei ritmi della natura; venti, nuvole, piogge, stagioni, fasi lunari, e poi la terra e i sistemi d’irrigazione, la costruzione di attrezzi per i lavori dei campi, animali e piante, tutto egli osserva, studia, conosce, utilizza per avere un buon raccolto.
Il contadino ha una saggezza antica e una bonomia ancestrale; da lui sono nati molti dei proverbi che girano in Sicilia; lui ha creato gran parte dei canti d’amore e di sdegno, di preghiera e di invocazione; lui sa essere un lavoratore solitario o uno dei tanti che compongono la ciurma (indice questo di una forte duttilità operativa); lui sa gestire la propria attività e all’occorrenza sa anche comandare un gruppo di lavoro; lui sa fare le operazioni più delicate in campagna, come innestare, potare, seminare, impiantare un terreno con colture specialistiche (vigneti, agrumeti, serre); sa lavorare il legno, il giunco, la canna, per costruirsi alcuni attrezzi; sa tracciare solchi e canali di scolo delle acque con sorprendente precisione.
Il contadino ha avuto anche un lungo e tormentato status sociale: da schiavo a valvassino, da servo della gleba a jurnataru e viddhanu, poi bracciante, agricoltore, massaro, sia che avesse in proprio i terreni o li conducesse per altri. La società occidentale per molti secoli ha dovuto interrogarsi sul ruolo dei contadini e gli altri ceti hanno dovuto scontrarsi spesso con quello dei contadini: voglio qui ricordare solo le lunghe e a volte sanguinose lotte per l’occupazione delle campagne o per una migliore dignità del lavoro contadino. Quello del contadino non è solo un mestiere, ma come ho già detto prima, è una condizione di vita, quasi una funzione sociale. La storia della nostra stessa civiltà si identifica per lungo tempo con la civiltà contadina e il periodo che noi stiamo trattando può essere definito, antropologicamente, periodo della cultura contadina.


Il carrettiere
Questa è una figura molto pittoresca, tra il guascone e il malandrino. Naturalmente io mi sto riferendo a chi per mestiere portava merci da un paese all’altro. Per delineare questa figura consentitemi di avvalermi di una mia intervista a Nunzio Bruno, l’artista floridiano che è un profondo conoscitore della cultura materiale, tratto dal mio libro “Alla tavola di Nunzio Bruno” del 1994.
“Il carrettiere era un fanatico e vestiva festosamente colorato: fazzoletto bianco che faceva capolino dal taschino della giacca di velluto marrone; pantaloni di velluto o di fustagno. Era una specie di dongiovanni, perennemente innamorato e poeticamente sensibile alle grazie femminili.
Amava la musica e il canto e si accompagnava con quello strano strumento di metallo che produce una sola nota bassa e che ha diversi nomi: nganna larruni (inganna ladroni), marranzanu, scacciapinseri, mariuolu. Le canzoni d’amore, di rabbia o di sdegno, di lontananza e di attesa, fiorivano sulla sua bocca con le immagini più calde e appassionate, e si cadenzavano in un ritmo lento e prolungato, variato e polifonico; anche il passo del mulo diventava strumento, anzi batteva il ritmo al cigolìo del carro e alla voce aperta e modulata del carrettiere.”
Era un mestiere remunerativo, quello del carrettiere, faticoso ma interessante perché si giravano molti paesi e si conosceva gente e si apprendevano notizie e storie che poi si portavano nei propri centri. Credo che uno dei protagonisti assoluti della circolazione e della varietà della tradizione orale in Sicilia sia stato proprio il carrettiere.


Il pastore
Le origini di questo mestiere si perdono nella notte dei tempi, anzi la pastorizia fu la prima forma di lavoro e di mantenimento alimentare delle prime comunità umane. La pastorizia è fondata sul nomadismo ed essenzialmente su tre prodotti che gli animali possono fornire: la carne, le pelli e il latte. Su ognuno di questi prodotti sono nati prima altri mestieri come il macellaio, il conciatore, il curatolo, e poi le varie industrie di settore. Il pastore ha pochi arnesi ed attrezzi, pochi vestiti e poca roba: il vincastro, quel bastone tipico di biblica memoria, lo zufolo di canna per allietare la sua solitudine con la musica, il tascapane, una specie di borsa in cotone o juta dove trovano posto il pane, un pezzo di formaggio, le olive e qualche altro oggetto d’uso personale. La letteratura siciliana si è spesso interessata di questa figura inserendola ora nei quadri idillici dell’arcadia ora nelle fosche atmosfere della mafia. Generalmente è un bravo intagliatore di bastoni e di canne, un profondo conoscitore del tempo meteorologico e un uomo che riesce a stare solo per giorni e giorni.


Il pescatore
Il pescatore è l’omologo del contadino; il mare è la sua campagna e dal mare egli trae sostentamento. Ricchissimo è il corredo di attrezzature che abbisogna al pescatore e varia a seconda della tipologia di questo professionista. Vorrei fare un solo esempio, quello della tonnara. È questa una delle occasioni più tipiche di lavoro a mare, in cui si organizzano le operazioni quasi industrialmente, con compiti e ruoli precisi, sia a mare che a terra. I marinai, che durante l’anno hanno solcato il mediterraneo sotto il sole, il vento e la pioggia, ora diventano tonnaroti e, ai comandi del Rais, danno luogo con vari attrezzi (aste, spette, masche, corchi) al rito cruento della mattanza. Non è questa l’occasione per soffermarci sui caratteristici momenti di questa violenta pesca ma basti dire che ogni movimento, ogni barca e ogni attrezzo ha una funzione prestabilita, sincronizzata, ordinata al medesimo fine, che è quello di chiudere i tonni nella camera della morte e poi tirare le reti fino a farli emergere dall’acqua e con ferri ad uncino caricarli nelle grandi barche. Portati a terra, nel caseggiato del marfaraggio, i tonni vengono squartati, puliti, selezionati nelle loro parti, cotti e inscatolati: tutte operazioni che richiedono altre specializzazioni, altri mestieri. La tonnara è un’industria completa, anzi un piccolo villaggio di alcune centinaia di persone che per alcuni mesi dell’anno vivono un’esperienza comunitaria fortemente coinvolgente e sentita.


Il minatore
Le miniere di zolfo dell’entroterra siciliano sono state efficienti fino alla seconda guerra mondiale. Nei profondi pozzi di zolfo si entrava da bambini e si usciva quando, da adulti, i polmoni non ce la facevano più a respirare. Una vita da cani, non un mestiere, una condizione anche questa dell’essere, anche questa ontologica di uno status che passava da padre in figlio, come una maledizione e non come un lavoro.


Conclusione
Nella Sicilia del novecento chi imparava un mestiere non lo cambiava più per tutta la vita; se lo portava addosso come una seconda pelle e spesso gli si affibbiava una nciuria (ingiuria) che rimandava al mestiere stesso.
Questi artigiani, contadini, pescatori, costituirono per lungo tempo quel ceto medio basso sul quale gravava la produzione economica, alimentare e materiale; a loro furono rivolte le attenzioni politiche dei governi, ora per illuderli, ora per sfruttarli ora per educarli e istruirli. La storia di Sicilia è stata scritta sulle loro spalle e non sulle spalle del ceto nobiliare e clericale, anche se questi due ceti amministravano il potere. Noi siamo gli eredi di questo ceto, i custodi dell’antico sacrificio dei nostri padri; di questo dobbiamo sempre essere consapevoli, anche quando diventiamo ricchi e importanti. Molte di queste categorie artigianali si organizzarono, nei secoli, in compagnie, in fratellanze, in confraternite che non avevano soltanto uno scopo di mutuo soccorso ma anche una forte connotazione socio-politica e religiosa e condizionarono per lungo tempo l’economia di interi paesi e città; influirono sull’organizzazione delle feste religiose condizionandone il ritualismo e qualche volta anche la liturgia e spettacolarizzarono le processioni per le quali ancora in Sicilia si nutre tanto interesse.

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