mercoledì 19 marzo 2008

ARTE E LETTERATURA

VITTORIO LUCCA

L’ANIMA DEL COLORE

(Questo saggio di Corrado Di Pietro è la presentazione del catalogo - Edizioni Galleria Roma - della mostra di Vittorio Lucca, tenutasi nei locali dell'ex Convento del Ritiro, via Mirabella, in Siracusa nel 2006.)



Il colore come mezzo ed espressione
In principio fu il colore, e il colore era nella luce; anzi il colore era la luce e tutto il creato era colore.
Parafrasando l’inizio del vangelo di Giovanni ci viene più agevole accostarci alla pittura di Vittorio Lucca; ci è più accessibile l’ingresso al mondo cromatico e culturale di questo pittore siciliano che nel colore ha trovato ogni possibile realizzazione formale della natura e dell’opera che l’uomo svolge su di essa.
Tutto è colore per Lucca e la luce stessa, madre e creatrice del colore, non fa altro che togliere i veli che in sua assenza offuscano e coprono le tinte. Provatevi a guardare una campagna o il mare o il cielo: poi chiudete gli occhi e vi resterà l’impressione di masse colorate che ondeggiano nella vostra mente oppure di materia impastata con diversi pigmenti cromatici a sostanziare caseggiati rurali, travi in legno, alberi, cespugli, fiori. La vita stessa è nel colore e con la vita anche il lavoro e la fantasia degli uomini.
Tutta l’esperienza pittorica di Vittorio Lucca, i suoi cinquantanni e più di avventura coloristica, sono da collocarsi nella dimensione del colore; non è un fatto scontato perché non tutti coloro che dipingono conoscono la materia prima del loro operare, così come non tutti coloro che scrivono versi sono poeti.
Lucca sa come si muove il colore sulla tela, sul legno, sul vetro o sul rame: lo ha analizzato, scomposto, seguito nei suoi fantastici itinerari molecolari, lo ha impastato e confuso, ne ha capito l’intensità, la forza, la vibrazione, il tono, ne ha subito il fascino e la magia fino a scoprire nel colore la vita stessa di ogni creatura.
Per questo nelle sue tele tutto ha vita e pare che un’anima sia dentro i paesaggi, uno spirito della vita che aleggi e s’innervi in tutte le cose.
La storia della pittura di Lucca è la storia della scoperta continua del colore; i suoi forsennati periodi di attività e le sue lunghe inspiegabili pause (anche di molti anni senza toccare mai il pennello) trovano una possibile spiegazione solo se li consideriamo come dei viaggi nei territori del colore: ci sono i momenti di frenetica avventura e i momenti di riposo. Gioca però su tutto un onirico bisogno di identificazione col colore, così come avveniva in Van Gogh e in molti impressionisti o così come poi ebbe a verificarsi nella drammatica pittura degli espressionisti: due facce della stessa medaglia. Lucca parte da questa ambivalenza, da questa inconscia aporia che, quasi illogicamente, guida il suo pensiero, il suo spirito e la sua mano.
Ed ecco passare dai sereni paesaggi dal cromatismo tenue e delicato (i colori degli anni cinquanta sono il giallo velato, il marrone delle ocre e delle terre di Siena, i verdi opachi, gli umbratili grigi, i tenui rossi, i celesti virginei) ai forti e vividi colori degli anni settanta e ottanta dentro una pennellata ampia e densa, fino agli sfavillanti luccichii cromatici degli anni novanta ottenuti con pennellate brevi e accostate come un ricamo. L’aporia sta proprio nelle ambigue sorgenti ispiratrici che alimentano la tensione culturale di Lucca, prima ancora dell’atto pittorico e prima ancora della scelta coloristica; perché questa pittura nasce dentro l’artista, innanzitutto, come istanza culturale.



La lezione sociale e morale
Molti di questi quadri non sono altro che una denuncia della violenza che l’uomo esercita sulla natura (vedi la serie dei paesaggi in cui compaiono pipistrelli, topi, mostri di fantasia che girano dentro una giungla di rami scheletrici e di gigantesche foglie).
Lucca ci riporta la visione di un mondo primordiale ricco di sensazioni fanciullesche, di immaginazione e di magia e anche di incubi popolati da uccelli neri e da draghi contro i quali ognuno di noi ha combattuto le prime battaglie.
I suoi paesaggi evocano un’atmosfera medianica che aleggia in un mondo ancestrale dove il vegetale e l’animale fanno da scenario alla perenne lotta fra la vita e la morte. La vita è rappresentata dalla pulizia e dalla forza del colore; la morte è configurata col segno contorto di rami e radici di scheletrici alberi intersecantisi in una giungla dove unici abitatori sono il gufo e il pipistrello: uccelli della notte, simboli del male e della distruzione, padroni di una natura nella quale mai appare l’uomo ma dove evidente si mostra la sua opera malefica.
Quali i contenuti culturali di questi “Paesaggi inquinati?”. È appariscente il motivo ecologico ma il substrato esistenziale di questo messaggio è da individuarsi nel drammatico confronto tra il Bene e il Male; nella acquiescenza della morte come elemento didattico di catarsi, insegnamento e strada per arrivare alla silenziosità e alla luce serena di altri paesaggi ripresi nel piccolo formato. Ed è proprio nelle tele più piccole, quasi a significare la preziosità della Luce, che la pittura di Lucca diventa solare e riposante, a tratti leziosa, volutamente; i colori abbandonano la loro rabbia, il cromatismo diventa tenue ed elegiaco, intessuto di grigi-cenere e di gialli sfumati; il verde e il marrone, filtrati nella luce crepuscolare, ci trasportano in un lirismo agreste che qualche volta ci capita di percepire nelle zone interne della nostra isola, laddove i fumi delle ciminiere non sono ancora arrivati.
Religiosità della natura contrapposta all’alchimia del progresso tecnologico; rito panico e sacrificio dell’habitat: queste le parallele entro le quali corre il messaggio del pittore siracusano.
Il quadro “La cicuta”, dai colori accesi e dalle forme esasperate e contorte, intona un’elegia di morte; in “Non uccidete le allodole” il contrasto fra il giallo luminoso dei fiori e il sangue che fuoriesce dal corpo esanime dei piccoli uccelli racchiude tutta la tragedia del nostro tempo; un tempo in cui abbiamo deriso la poesia del creato e da coabitatori del mondo siamo diventati tiranni crudeli e senza scrupoli.
Ma Lucca canta pure la gioia con impeto di fanciullo. La canta in tutta la serie dei quadri dedicati ai fiori, soprattutto in quello bellissimo delle “Strelitzie” dove eleganza, forma e colore si sposano felicemente riuscendo a creare un’immagine di questi “Uccelli del Paradiso” che si libra oltre la cornice, là, nella dimensione fantastica che pure ci accompagna.
Impeto e magia: modi di essere e di rappresentare la realtà propri di un ragazzo o di un poeta. Paesaggi disneyani che non sappiamo come definire ma che ritroviamo sempre nella nostra memoria, non appena abbassiamo le palpebre. Se esiste la fiaba o l’incubo o solo il sogno nelle sue molteplici sfumature, se la realtà non si limita solo a quello che noi percepiamo, allora Vittorio Lucca ha ragione.
Ha ragione di dipingere paesaggi idilliaci o infernali, secondo le varie visioni del reale; e ha ragione anche quando, in un impeto di denuncia, dipinge corvi e pipistrelli e, in contrasto, squarci di natura permeati di una luce appena percettibile. Noi siamo i corvi e i pipistrelli e fin quando i nostri occhi staranno chiusi nessuna luce potremo percepire, anche se la caparbietà di un artista puro e quasi ingenuo come Lucca ce la mostra aprendo le sue innumerevoli finestre.


La Sicilia
Se poi a tutto questo aggiungiamo l’ambientazione di questi paesaggi, cioè la Sicilia con la sua forte solarità, i suoi accesi colori, la violenza e l’abbaglio dei rossi, dei verdi, dei gialli, dei blu - i fondamentali quattro colori del paesaggio siciliano - ; se aggiungiamo ancora il raffinatissimo gusto estetico che consente a Lucca di ritagliare l’angolazione ‘naturisticamante’ più interessante e ritrarre la materia come fosse la pelle della terra, gravida di toni, di sfumature, di variazioni, appare allora più chiara la dimensione culturale e artistica del pittore siracusano.
E appaiono chiare ed evidenti le varie fasi che ha attraversato l’artista; i rimandi e i richiami delle varie scuole che hanno dominato il novecento europeo: dall’espressionismo all’informale, attraverso il fauvismo e il cubismo, fino a raggiungere una visione del tutto personale dell’arte e della pittura. E’ la visione di una coloristica totalizzante, onnicomprensiva, dove non c’è posto per la figura umana e forse non ci sarà più posto neanche per quell’esigenza culturale che avevamo sopra accennato: tutto il creato pare che si abbandoni all’anima del colore stesso che torna alla sua funzione generatrice di ogni possibile universo.
L’universo di Lucca ha connotati territorialmente definiti. Si parlava della Sicilia, ma forse sarebbe meglio parlare del paesaggio siracusano: terra di forti contrasti tonali per via di una luminosità estrema. Qui si può parlare di una perenne “gloria del disteso mezzogiorno” per utilizzare una bella immagine montaliana; si può vedere il ricco gioco cromatico che la luce del sole intreccia di foglia in foglia, di ramo in ramo, di pietra in pietra, di collina in collina, fra terra e cielo.
Paesaggi campagnoli e marini, luoghi e contrade sparse in tutta la provincia, strade e paesi, casolari e grotte, spiagge e promontori siracusani: mai nessuno ha “visto” la nostra terra con così copiosa ricchezza di emozioni, di angolazioni, di trasformazioni e di sublimazioni. È un racconto per immagini, per trasognate suggestioni! Lucca dipinge all’aperto, come gli impressionisti, ma poi elabora totalmente le sue tele, le introduce nella dimensione di un suo personale sogno e, rivisitate oniricamente, le esprime compiutamente. Per questo la pittura di Lucca ha bisogno di essere vista e meditata, rivista ancora e assimilata.




Lucca e l’Opera dei Pupi
A cavallo del millennio, fra il 1999 e il 2004 sono state realizzate a Sortino, un grazioso centro nell’interno collinare ibleo, le Rassegne del Teatro dei Pupi Siciliani e Vittorio Lucca ha realizzato quattro quadri dai quali sono stati tratti i manifesti, attualmente patrimonio del Comune di Sortino. Un quinto quadro sulla stessa tematica è di proprietà dell’autore. In questo catalogo abbiamo voluto riportare le cinque tele poiché, a nostro giudizio, rappresentano uno degli esiti più importanti dell’artista siracusano.
Si tratta di opere di un certo impegno estetico e contenutistico, sia per un esplosivo cromatismo che ravviva il disegno e lo avvicina in qualche modo ai tradizionali cartelloni dell’opera dei pupi, sia per il simbolismo al quale si rifanno le figure e la concezione stessa di questi quadri.
Il gesto è l’essenza del teatro, il suo peculiare segno e la sua più articolata rappresentazione. Il gesto crea e accompagna il pensiero, spesso anche la parola: si fa iperbole e spirale di un ragionamento o linea retta o circonferenza di un’idea, di un fatto, di una storia; il gesto accarezza e uccide e nel suo farsi e disfarsi sul tavolaccio di un palcoscenico crea simboli e metafore, rievoca memorie o costruisce sogni.
Ma soprattutto il gesto è l’essenza del teatro dei pupi, di quel teatro che, nato in Sicilia nella prima metà dell’ottocento, continua ancora oggi a rappresentare il gesto perenne ed eroico dei Paladini di Francia, dei Santi Cristiani, degli Eroi e dei Briganti che hanno acceso la fantasia popolare. Questo gesto teatrale e magico, simbolico e didascalico, sta alla base delle tele “pupare” del Maestro.
Il cavaliere che uccide il drago nel primo manifesto “Amore e Odio nei Pupi Siciliani” simboleggia la lotta tra il Bene e il Male, quella continua didattica fra Amore e Odio sulle quali si dipanano le vicende narrate dai pupari siciliani; in questa lotta vive ogni cosa: l’albero a cui si attorciglia il drago-serpente si antropomorfizza, le grotte di Pantalica che fanno da fondale si animano in un tremore pallido, la natura esplode in forme contorte e accesi colori, l’orizzonte si allontana su toni e piani diversi come quinte orizzontali che separano lo spazio. Il gesto qui si fa lotta e avventura.
Nel secondo manifesto, “Il Teatro è Vita”, i toni si appiattiscono, le tinte si fanno uniformi e larghe, lo scenario si apre su un gruppo di maschere tipiche del repertorio popolare italiano. Si vuole evidenziare il connubio fra teatro e vita: il primo trova compimento nel gesto dimesso delle maschere a riposo, la seconda trova significazione invece in quell’ape d’oro che spinta da una spirale si allontana dal palcoscenico. L’ape è il simbolo della laboriosità e della genialità umana; ma è anche il simbolo di Sortino, generatrice del famoso miele degli Iblei; dunque quale migliore simbolo di potenza e di fecondità poteva rappresentare la vita che si dipana nel teatro del mondo?
Ma il gesto si fa liberatorio e incisivamente teatrale nel terzo quadro, “Santi ed Eroi”. Qui il gesto dei Santi che esultano come in un coro greco dinanzi ai paladini in armi, quasi a suggellare con la loro gioia la nobile “gioia” degli antichi cavalieri medievali, si veste di una sottile ironia, di quel sapore popolaresco che intride di felice ingenuità le pitture che accompagnano l’Opera dei Pupi. I colori sono solari e distribuiti a pennellate larghe per scandire la prospettiva; le forme hanno qualcosa di scultoreo come in quel cavallo in primo piano che simboleggia tutta l’epopea cavalleresca. E il gesto ancora una volta racconta le battaglie e le avventure dei vecchi paladini.
Il quarto quadro di questa piccola antologia porta il titolo suggestivo di “Orlando a Roncisvalle”, cioè nell’ultima battaglia del grande cavaliere, nel luogo dove perse la vita. Quadro complesso nella struttura, che meriterebbe maggiore spazio di quello che qui disponiamo. Al centro, grande e imponente, su un cavallo bianco alzato su due zampe, sta Orlando dall’aurea armatura: suona il corno e una luce solare, d’oro e di fuoco, scende dall’alto sopra di lui. In basso, ben definiti nei colori e nelle forme cavalcano i suoi paladini; di lato a lui, dipinti in forme evanescenti, come masse fluttuanti, s’intravedono i cavalieri saraceni. È l’apoteosi di Orlando, il momento cruciale della battaglia. Si avverte la tensione epica e religiosa ad un tempo che denota l’approfondimento culturale operato dal pittore, soprattutto attraverso una rappresentazione simbologia molto articolata.
Il quinto quadro rappresenta “Pulicane”, cioè un gigante con la testa di cane che scaturisce dalla ricca galleria di mostri e di figure mitiche del mondo paladino dell’Opra. Pulicane, nella sua maestosa presenza e nell’atto di scagliare un grande masso verso Orlando che gli si para davanti con la spada sguainata, è il simbolo non proprio del Male ma dell’ignoto, dell’ostacolo che nega l’avventura, del mostruoso che annichilisce e impaurisce. Pulicane è la nostra angoscia, la paura della vita spesa per la generosa inchiesta del bene, è la massa deformata delle nostre inquietudini.
Come si vede c’è una lezione forte e precisa in queste opere pupare; un desiderio di coniugare la semplicità rappresentativa e primitiva dell’arte popolare con l’approfondimento tematico e stilistico dell’artista colto.



L’Annunciazione a Ortigia
Sulla scia del simbolismo che abbiamo analizzato per le opere “pupare”, Vittorio Lucca, pittore di paesaggi e di “cose”, ritorna di quando in quando sui temi religiosi. L’Annunciazione a Ortigia è del 2003 e giunge dopo il calvario che il Maestro ha dovuto sopportare per via di un brutto male che lo ha molto debilitato. Ma poco importa. Ciò che è importante è quello che viene fuori dall’esperienza dell’uomo e dell’artista e che si colloca nella sua personale storia.
Quest’Annunciazione che qui proponiamo è frutto di una originale lettura teologica dell’evento religioso: è prima di tutto esegesi e meditazione sull’incarnazione di Dio, sulla presenza del soprannaturale nella storia dell’uomo, sull’annuncio di una nascita straordinaria. Solo dopo, ma molto dopo, è un’opera di pittura. Vediamo allora di conoscere questi due aspetti che formano un unico fatto d’arte e di religiosità.
L’aspetto religioso si estrinseca attraverso una lettura popolare dell’Annuncio; l’ambiente è quello di un cortile di Ortigia: in primo piano, sulla sinistra di chi guarda, si alza una grande palma, sulla destra campeggia, come contrappeso formale ma in effetti come immensa presenza del divino, un angelo dalle grandi ali luminose e dal vestito grigio-azzurro; al centro del cortile, seduta su una sedia, con le gambe divaricate e il capo appoggiato su un braccio disteso sul poggiaschiena della sedia, dorme una fanciulla, minuta, nera di capelli e di veste, con le braccia scoperte quasi a farci capire che è estate e siamo nell’ora pomeridiana assolata e calda; sullo sfondo si intravedono sagome di edifici dagli intonaci scrostati, un lampione immenso, un cielo azzurro fra alberi e case. Tutto l’ambiente ha qualcosa di solitario, statico, come se la storia si fosse fermata qui, in questo luogo povero e disadorno, quasi squallido se non fosse per gli alti palmizi che sembrano colonne a sostegno del cielo.
Maria è una delle nostre ragazze, una di quelle donnette spaurite e dolenti che vediamo camminare spedite nei vicoli della Giudecca, o una di quelle giovanette gaie e felici che vediamo appendere i panni nei cortili della Mastrarua, o che si pettinano sorridenti negli slarghi della Spirduta. Maria abita qui di casa, nella concezione religiosa di Lucca, sempre; abita laddove c’è un popolo che vive e che ha bisogno di una speranza e di un aiuto dal cielo. Ecco quindi l’Angelo dalle grandi proporzioni, l’Angelo che sovrasta ogni altra cosa e che irrompe con la sua pesantezza nella storia di un paese e di una fanciulla in particolare. L’evento dell’Annuncio dell’incarnazione avviene sempre, ogni giorno e ogni qual volta siamo disposti ad accoglierlo. Ed ecco rappresentata simbolicamente anche la presenza dell’Uomo-Dio: la palma, segno antico di gloria, di risurrezione e di potenza.
Tutto è concepito secondo i vecchi canoni medievali; e qui entriamo a considerare il secondo aspetto di questo dipinto, quello formale. La composizione è contestualizzata simbolicamente e non realisticamente; non ci sono proporzioni e simmetrie fra le parti, non c’è un vero e proprio disegno armonico; i piani prospettici sono approssimativi e le figure appaiono sproporzionate nei confronti dell’insieme. Questa disarmonia è la chiave d’interpretazione del dipinto: Dio irrompe in un mondo disarmonico per ricreare l’armonia cosmica; i colori stessi sembrano illanguiditi, in attesa di qualcosa che li vivifichi e si stendono sulla tela con toni dimessi, senza quel fuoco d’impasti e di brillantezza cromatica che abbiamo apprezzato nelle tele di Lucca. È il momento prima dell’Annuncio, l’attimo in cui ancora tutto dorme, insieme a Maria, prima che la mano dell’Angelo si posi sul suo capo e le dica: “Salve, o piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei la benedetta fra tutte le donne.”
L’evento accade in Ortigia, l’antica e storica Siracusa, il luogo più popolare e più intriso di umana passione.



Le nature morte
Un paesaggista come Lucca sa come vivificare la natura; ne conosce le vibrazioni e ne scopre continuamente le pulsazioni più nascoste.
Le nature morte, ovvero la rappresentazione di fiori, oggetti, carcasse d’animali, rifiuti urbani, legni sparsi, erbe e cespugli ingranditi, intonaci scrostati, bidoni abbandonati ecc., rappresentano il mondo delle cose che ci passa sotto gli occhi, ogni giorno. Si potrebbe parlare di realismo o di didascalismo dell’opera lucchiana, ma commetteremmo il grande errore di falsare la vera prospettiva dentro la quale sono proiettate queste opere. Ancora e sempre l’oggetto è solo un pretesto “narrativo”; ciò che importa all’artista è la rappresentazione del colore, la sua manifestazione, quasi una continua perenne meravigliata epifania. Non staremo qui a ripetere le cose già dette; ricorderemo invece l’impasto cromatico denso e ricco che dà corposità alle forme; ricorderemo la ricchezza della pennellata, ora nervosa e breve, ora larga e distesa; ricorderemo il gusto di una coloristica esplosiva, a volte eccessiva e frastornante, sempre tesa alla ricerca dell’accostamento cromatico inusuale e inedito; ricorderemo la passione di un pittore che viene dalla bottega del grande Ferruccio Ferri, che fu il maestro di tanti pittori siracusani negli anni quaranta del secolo scorso e che ai suoi allievi ha trasmesso questo amore per il colore.
In quella bottega, che fu l’Istituto d’Arte siracusano, si lavorava come nelle botteghe rinascimentali, si imparava l’arte e si capivano gli intimi meccanismi della tecnica pittorica.
Lucca fu uno dei migliori allievi di quella scuola, il resto lo si deve alla sua sensibilità e al suo amore per la nostra terra.


Questa mostra antologica vuole rendere testimonianza a un vero autentico Maestro della pittura siciliana; vuole tributargli quell’omaggio ed esprimergli quei sentimenti di gratitudine per la passione e l’impegno assoluti profusi in una vita di dedizione all’arte; vuole che la sua città natale, per la quale ha uno smisurato amore, gli renda quell’onore che si tributa ai figli migliori.

Nessun commento: